Mondiale rugby 2019

Il Sudafrica sul tetto del mondo

Sabato 2 Novembre zona Est di Londra, i Docks, ovvero le cenerei di quelli che erano i cantieri navali sul Tamigi, trasformati oggi in un complesso residenziale che alterna i grattacieli delle più importanti banche mondiali a piccoli cottage di due piani in pieno stile inglese, con tanto di piccolo backyard. Se volete sapere che cosa erano i Docks cento anni fa dovreste leggere Il Popolo dell’abisso di Jack London, dove una zona oramai iper modaiola e ricca, viene descritta come una terra di senza tetto provenienti da tutto il mondo in cerca di qualche piccolo ingaggio da parte delle compagnie navali che da Londra partivano per tutto il mondo. Nulla rimane di quella pagina cupa e dolorosa della storia inglese, nulla si ritrova nelle pur affascinanti strutture cantieristiche trasformate in splendidi loft e raffinati caffè dal gusto newyorkese.

Jack London

Sono le 8,30 e io sono in un pub che vanta oltre al classico buio tipico di questi locali, delle belle foto in bianco e nero di lavoratori e marinai di almeno duecento anni fa. Non ho scritto male l’orario, sono le 8,30 di mattina e io mi trovo in un pub con gente che beve birra esattamente come farebbe alle 18,30. L’occasione è quella della finale del Rugby World Cup, tenutosi in Giappone. Ad un orario improbabile per iniziare a bere e cantare in coro, va in scena la finale di rugby che vedrà affrontarsi le nazionali di Inghilterra e Sudafrica. Per gli inglesi questa finale vuol dire una piccola luce in momento buio della storia nazionale. La Brexit, volenti o nolenti, ha bloccato il Paese portandolo ad interrogarsi su cosa sia. Discorsi economici a parte, Brexit vuol dire “Ehi c’è la possiamo fare da soli, non abbiamo bisogno di nessuno noi”, affermazione autarchica forse troppo ideologica in un mondo in costante cambiamento di baricentro. Il popolo inglese puntava molto sulla finale mondiale di rugby, un po’ per poter fissare il proprio ranking nella parte alta della classifica, un po’ per riparlare di sport e congelare per un giorno i dibattiti continui sul futuro dell’isola madre. Nota a piè pagina: se accendeste a qualunque ora del giorno e della notte la BBC vi accorgereste che quasi il cento per cento della programmazione è dedicata a dibattiti sui possibili scenari da affrontare con la Brexit.

Ad ogni modo i ragazzi della Rosa Rossa dei Lancaster sono arrivati in finale e se la vogliono giocare, per loro, per il paese, perché sono Inglesi. Un percorso quello dell’Inghilterra non certo facile viste le sfidanti, squadre in molti casi ben allenate e stimolate a fare bene. Tra tutte la più sorprendente è stata di certo quella di casa, il Giappone. Un’escalation, quella dei nipponici, di posizioni e vittorie davvero difficile da immaginare all’inizio del mondiale ma non certo casuale, bensì frutto di un lungo lavoro sia sportivo che politico. Grazie infatti, alla politica delle nazionalizzazioni, inventata da noi italiani durante il fascismo per assicurarci gli “oriundi”, la squadra Giapponese ha potuto impreziosire la propria formazione con campioni assoluti e qualche fuoriclasse come il samoano Timothy Lafaele, vera e propria forza della natura che ha brillato per intelligenza, velocità e strategia. Una squadra costruita per vincere e sorprendere il Giappone, ed è esattamente quello che ha fatto, prova ne é lo splendido incontro con la Scozia, dove due modi di giocare il rugby si sono incontrati dando vita ad un vero e proprio spettacolo per gli occhi.

Ma tornando alla finale, dicevamo Inghilterra ma che dire dei loro avversari? Il South Africa si presentava come una squadra solida e ben allenata. Una realtà costruita in anni di lavoro, premiati da una posizione stabile per molto tempo al vertice della classifica del ranking mondiale. Come molti ricorderanno solo nel 1992 si vide nascere la South African Rugby Football Union dalla fusione della federazione rugby per bianchi e quella per neri, fino ad allora divisi anche nelle categorie sportive dall’apartheid. Nel 1995 il South Africa dell’allora Presidente ed eroe Nelson Mandela, viene investito dell’onore di organizzare il Rugby World Cup, la prima manifestazione di portata internazionale a toccare il suolo nazionale. Il mondiale é un successo, il South Africa trionfa e l’abbraccio fra Nelson Mandela e Jacobus Pienaar, capitano degli Springbok, entrerà nella storia non solo sportiva per una delle più belle fotografie del secolo scorso. La vittoria del South Africa nel mondiale di rugby aveva voluto dire soprattutto la vittoria di un paese che per dopo anni di inaudita violenza si ritrovava unito e prosperoso. Non é un caso che il motto scelto allora per sostenere la squadra verde dorata fu “One team, One country”.
Non è un caso nemmeno che Clint Eastwood abbia deciso di immortale la storia del percorso a quel mondiale con un film splendido come Invictus. Nel film compare anche il celebre scambio di battute fra il Presidente Mandela e il capitano degli Spingbok: «Quando Nelson Mandela mi diede la Coppa mi disse “Grazie per quel che hai fatto per il Sudafrica”, ma io gli risposi: “Grazie per quel che hai fatto tu!”».

Il clima è buono qui nel pub, ordino anch’io è una Guinness e mi siedo fra gli sguardi un po’ sospettosi degli avventori inglesi che non capiscono bene cosa ci faccia un italiano vestito da professore in mezzo a loro. L’accoglienza è gioviale e quando spiego a due di loro che sono curioso di vedere quella finale in mezzo a loro per provare a scriverne, mi danno delle pacche sulle spalle sorridendo, sentendosi i protagonisti di un tabloid internazionale. Bagno appena le labbra di Guinness e le squadre sono in campo con il cerimoniale già svolto, pronte a prendersi amabilmente a mazzate per la prossima ora. La partita parte immediatamente forte e il South Africa non fa nulla per nascondere la propria grandissima qualità tecnica. D’altro canto gli inglesi hanno cercato di mantenere l’ordine e il controllo per buona parte dell’incontro. Tutto finché sul punteggio dignitosissimo di 21 a 12, il South Africa ha preso il largo facendo una decina di punti in soli dieci minuti, compresi due mete e due calci piazzati davvero mirabolanti.

La parità si chiude e gli inglesi la prendono bene, nonostante l’amarezza; in fin dei conti era un po’ nelle previsioni che i sudafricani prendessero il largo, perciò nessuno ne fa un dramma. Ma è a fine partita che Siya Kolisi, capitano degli Springbok, ci regala una perla di sport di quelle che ci fanno un po’ emozionare. Appena terminato l’incontro, ancora con i segni della fatica immane compiuta da tutta la squadra per arrivare alla vittoria, Siya Kolisi ringrazia il Paese in cui è nato per aver sostenuto la squadra diventata ormai un vero e proprio perno della moderna identità nazionale sudafricana. Un storia quella del Sudafrica del rugby che si conferma essere a doppio filo legata al presente della nazione e speriamo ancora al suo futuro.

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