marco pantani cover

Il Migliore e il “Panta” ci ricordano il valore delle parole

In una società in cui tutto, rispetto al passato, procede a velocità doppia se non tripla, le parole spesso diventano sfuggevoli, preda di stili comunicativi e di linguaggi che per svariate esigenze devono essere rapidi e di facile comprensione. È abbastanza comune, quindi, che frasi e concetti vengano recepiti ma che su questi non si abbia il tempo di riflettere e approfondire, di cogliere appieno le eventuali sfumature presenti e comprendere perché siano stati usati certi termini invece che altri. Ne Il migliore. Marco Pantani, pellicola distribuita da Nexo Digital e uscita nelle sale cinematografiche a metà ottobre, il tema del peso delle parole emerge in maniera piuttosto preponderante, sviluppandosi attraverso la ricostruzione di una vicenda molto delicata come quella che ha per protagonista il compianto Pirata.

Il film rivive la carriera e la vita dell’ex corridore romagnolo attraverso i racconti e i ricordi più intimi delle persone a lui vicine, utilizzando un punto di vista (parzialmente) inedito che, anche attraverso le scelte e il sapiente lavoro di confezionamento del regista Paolo Santolini, sottolinea tra le righe l’importanza della parola rimarcando neanche troppo velatamente come sia difficile e al contempo essenziale saperla scegliere, maneggiare e soppesare.

Come ben evidenziano i cento minuti di girato, il tradimento perpetrato da tanti nei confronti di Pantani dopo i fatti del 5 giugno 1999 è un tradimento che, in un’epoca dove i social media e l’informazione sul web erano ancora ad uno stato pressoché embrionale, si è consumato per gran parte via stampa attraverso i tanti giudizi espressi senza mezze misure sui giornali dell’epoca. Questi, assieme alla televisione, con le loro scelte stilistiche ed editoriali hanno contribuito a dare l’idea che Pantani fosse in qualche modo colpevole anche se non lo era, alimentando una cultura del sospetto e dell’accusa che anche oggi domina i rotocalchi sportivi e non. Le persone che gli volevano bene nel documentario denunciano il “potere della mala informazione” rimproverando più o meno apertamente l’atteggiamento assunto dai media in quelle stagioni, uno dei tanti fattori che hanno spinto il vincitore del Giro e del Tour 1998 a perdere serenità e ad infilarsi poi nell’oscuro tunnel della droga.

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Tutto (o quasi) parte dalla parola, un qualcosa che, ieri come oggi, può essere considerato alla stregua di un’arma da adoperare con attenzione. Questa, per ciò che può innescare, per le reazioni che può produrre e per il suo potere manipolatorio, non andrebbe mai banalizzata ma impiegata con cura e ponderata con accortezza, magari perdendo qualche secondo in più a riflettere su ciò che si sta per dire e a chi fruirà ciò che diremo, invece che dare la precedenza alle tempistiche di consegna o a quelle della diretta televisiva.

Non porre attenzione alla parola è qualcosa che può finire per pesare direttamente su di noi ma anche sulla persona che la elabora e la fa sua. Come viene sottolineato nel film, negli anni molti –spinti certamente da pressioni esterne– con le proprie parole hanno pensato di dire la verità o dato l’impressione di saperla, esprimendo sentenze o pareri in alcuni casi inopportuni. Ecco che forse allora, ed è ancora una volta il film a suggerirlo, in queste circostanze è meglio semplicemente lasciar spazio a una cronaca ben fatta (come poteva essere quella di Adriano De Zan, definito “Un signore col microfono“) o, addirittura, al silenzio.

La stampa e la televisione con le loro scelte stilistiche ed editoriali hanno contribuito a dare l’idea che Pantani fosse in qualche modo colpevole anche se non lo era, alimentando una cultura del sospetto e dell’accusa che anche oggi domina i rotocalchi sportivi e non.

Un silenzio, magari, come quello che impiega Santolini, ovvero forte e riempitivo, usato per stimolare nel profondo lo spettatore e per dare, con l’accostamento di alcuni spezzoni di filmati amatoriali, l’immagine di un Pantani vivo, di un “patacca carismatico” che, a proposito di parole, la pellicola mostra più volte impegnato a ricercare il giusto termine per completare le proprie frasi. Pensando a lui e al suo vissuto, viene spontaneo chiedersi cosa sarebbe successo se il resoconto avesse avuto la meglio sulle insinuazioni, se la neutralità e il beneficio del dubbio fossero prevalsi sulle note accusatorie che da un giorno all’altro gli sono piovute addosso da più parti.

Il gioco dei se e dei ma tuttavia non porta a nulla se non, in questo caso, ad acuire il senso di rimpianto e dispiacere che spontaneo si insinua in noi pensando a come è terminata l’avventura terrena di Pantani. Può invece risultare certamente più utile prendere spunto dalla sua esaltante e travagliata storia e, in base alla propria sensibilità, far nostro uno o più insegnamenti che questa ci fornisce. Tra i tanti: utilizzare un lessico appropriato alla situazione; vagliare con attenzione le espressioni da usare; non cadere in facili conclusioni; e non abusare di espressioni standardizzate. Queste sono indubbiamente alcune delle massime più concretamente applicabili alla vita di tutti i giorni, una quotidianità dove spesso fretta fa rima con imprecisione, e in cui è sempre più complesso trovare modo e tempo per dare alla parola la considerazione che merita.

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