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Il calcio nella Pompei dei Caraibi: la rinascita di Montserrat

A volte cercavo in rete i nomi tradizionali caraibici di Montserrat, altre volte facevo ricerca sul database di Football Manager. Quando trovavo un giocatore lo contattavo su Facebook chiedendogli se avesse voglia di giocare in nazionale. Leggendo queste parole, in molti hanno creduto che stessi scherzando, che fosse tutta una bufala, ma quando finalmente riuscivo ad avere delle conversazioni telefoniche con loro e spiegare da dove siamo partiti, i risultati che stiamo avendo e l’impatto che stiamo generando sull’isola, beh, le cose hanno iniziato a prendere una piega diversa.

Bradley Woods-Garness

Trascorrere più tempo sull’isola ha dato alla squadra una comprensione molto più profonda di chi stanno rappresentando. A Montserrat Fanno ancora dei tour nelle aree dove non è pericoloso, così da vedere cosa è successo. È piuttosto straziante, ma fa parte della storia dell’isola. L’ha resa ancor più una comunità coesa e ha fatto sì che le persone si prendessero più che mai cura l’una dell’altra. Prima non vedevi bambini che giocavano a calcio, ora non vedono l’ora di giocare per il paese. Potranno avere o non avere successo nel calcio, ma ciò darà comunque loro una spinta e una passione che useranno in altri aspetti della vita. Una volta che vedi le persone e vedi quanto sono orgogliose di noi, anche quando perdiamo partite, sentiamo il dovere fare tutto il possibile per loro. Anche se siamo cresciuti nel privilegio di un paese come l’Inghilterra, tornare a Montserrat è così rigenerante perché ci riporta a chi siamo nel nostro DNA.

Alex Dyer (testimonianze per BBC Sport)

Questa è la storia di un popolo che ha visto la propria capitale sparire sotto una coltre di lava dalla sera alla mattina, il racconto di un’isola che, a causa di un disastro naturale senza precedenti, si risveglia ogni giorno privata di parte del suo popolo e della metà del proprio territorio dichiarato inabitabile e a rischio. Se è vero che nel Caribe le calamità naturali sono all’ordine del giorno e che la gente che abita la regione è da sempre avvezza alle rinascite, quando si parla di un’isola lunga solo 16 chilometri ogni cosa, ogni azione e pensiero si fanno dannatamente complessi. 

“Un popolo eccellente, modellato dalla natura, nutrito da Dio”, questo è il motto che accompagna la Union Jack cullata da una splendida fanciulla intenta a toccare un’arpa irlandese. Mai parole furono più giuste per il territorio d’oltremare britannico di Montserrat, l’isola la cui vita, memoria e coscienza nazionale sono state irrimediabilmente segnate da un vulcano. Era il 18 luglio 1995 quando il vulcano Soufriere Hills eruppe con una forza e una violenza senza precedenti. Fu l’inizio della fine. In pochissimo tempo lava e cenere presero il possesso della vita e della storia dell’isola, inghiottendosi tutto. Di Plymouth, la capitale, con i suoi edifici in stile georgiano, il parlamento, l’ospedale, la posta, le banche e le rosse cabine del telefono che ricordavano Londra, non rimase che qualche scheletro scampato alla marea di lava. A morire non era soltanto la città che teneva l’isola in vita e connessa con il mondo, bensì l’intera storia di un popolo, i luoghi e i simboli da sempre presenti che raccontavano un passato di schiavitù, l’arrivo dei pastori irlandesi, la vita coloniale, l’autonomia guadagnata nel 1968 e il patrimonio di una terra che tutto il Caribe conosce come l’Isola smeraldo.

vulcano Soufriere Hills
L’eruzione del vulcano Soufriere Hills

Oltre a Plymouth, più della metà dell’isola venne subito evacuata e marcata come zona d’esclusione, invivibile e pericolosa, e tutto si spostò nei villaggi lungo la costa. Il piccolo villaggio di Brades fu designato come nuova capitale e da subito tende e containers vennero messi in piedi per far fronte all’emergenza del momento, ma non a quella degli uragani che sovente scuotono il Caribe. Fu così che, terminata la fase acuta dell’eruzione vulcanica, arrivò l’uragano Luis che finì l’opera di devastazione dell’isola e costrinse i suoi abitanti a trovar rifugio nelle pochissime scuole, chiese e case rimaste in piedi. Il bilancio finale accertò la morte di 19 persone e quella di buona parte del territorio. Per molti non restò altro che lasciare l’isola, poiché la terra rimasta non bastava per tutti, perché non tutti avevano le risorse o gli aiuti necessari a rimettere in sesto la propria vita e quella della propria famiglia restando a Montserrat. Meno di 4 mila persone degli oltre 11 mila abitanti dell’isola decise di rimanere e ricostruire una parvenza di stato e di quotidianità. Tutti gli altri migrarono alla volta della vicina Antigua, negli Usa e in Regno Unito, Paese che a partire dal 1950 aveva accolto le famiglie in arrivo dalle Indie Occidentali. Chi approdò in Inghilterra in cerca di aiuto concreto da parte di parenti, diaspora e autorità si trovò in qualche modo a vivere un ritorno ai meccanismi dipendenti e assistenziali tipici dell’epoca coloniale. Oltre a questo c’era il trauma della mobilità e della migrazione forzata, causata da un disastro ambientale, dalla propria terra, scrigno paradisiaco di ogni ricordo, oggetto di orgoglio ed elemento fondante della propria identità. 

Meno di 4 mila persone degli oltre 11 mila abitanti dell’isola decise di rimanere e ricostruire una parvenza di stato e di quotidianità. Tutti gli altri migrarono alla volta della vicina Antigua, negli Usa e in Regno Unito

La terra, da sempre nutrimento dell’anima e della casa – quella costruita dai padri dei padri nel punto in cui il verde della selva che cullava il vulcano incontrava le nere scogliere a picco sull’Atlantico – aveva deciso unilateralmente di rompere bruscamente ogni relazione con la propria gente. Per la diaspora di Montserrat ogni ricordo è riconducibile al vulcano e tutto segue una precisa sequenza: eruzione, evacuazione, migrazione, e al processo di elaborazione del lutto segnato dallo smarrimento, la rabbia di aver perso tutto, l’impossibilità di ottenere aiuto da un governo locale inefficiente e carente di risorse nonché la difficoltà a calarsi in nuovi contesti che ignorano persino l’esistenza dell’isola. 

Spesso, quando si entra a contatto con le storie di migrazione forzata ci si domanda quale sia il vero significato di casa per chi ha dovuto abbandonarla. Per i migranti, la casa è lo spazio dove è sempre possibile immaginare e proiettare la propria origine e identità. È la memoria di luogo che nella mente è rimasto statico – ciò che è familiare e genera amari sorrisi e nostalgia – ma che invece si evolve allo stesso modo di chi, abituandosi a vivere nel nuovo contesto, si ritrova a modellarsi e ridefinirsi in una vita non programmata e forse non voluta. Probabilmente fu proprio la voglia del preservare l’integrità mentale, spirituale e culturale nonché la libertà che è data dall’appartenere a un popolo, a uno Stato, a una precisa identità nazionale a determinare la catarsi della diaspora isolana.

Londra, Birmingham, Preston e Southampton si convertirono nei luoghi d’approdo per intere famiglie e in breve tempo sorsero dei circoli culturali e aggregativi, come l ‘Under a coconut tree e la Montserrat Friends Association di Preston dove le famiglie iniziarono a riunirsi con costanza per aiutare i newcomers, cucinare i piatti della tradizione, leggere le poesie, cantare e ballare la Soca o la musica Calypso, festeggiare il carnevale o la festa di San Patrizio. Con il passare degli anni questi luoghi si sono convertiti nel miglior strumento di conservazione della memoria e della coscienza nazionale di Montserrat , utili a formare ed educare chi l’isola non l’ha mai vista eppure, la considera come l’unica patria possibile: la casa. Il resto lo ha fatto la nazionale di calcio, la cui storia è strettamente connessa al vulcano e all’epopea dell’isola, abituata per fato o per disperazione a trovare nella caduta la propria essenza e riscossa. 

Londra, Birmingham, Preston e Southampton si convertirono nei luoghi d’approdo per intere famiglie e in breve tempo sorsero dei circoli culturali e aggregativi

Immaginatevi ora cosa voglia dire per i giocatori della nazionale vestita di verde rappresentare questa storia comunitaria nel calcio internazionale: una sfida, un orgoglio, un ritorno. A onore del vero bisogna dire che l’isola non è mai stata innamorata del football e le poche strutture sportive presenti prima e dopo il vulcano erano state concepite per dare voce a cricket e baseball, sport capaci di connettere Montserrat con il resto delle Antille. Negli anni Cinquanta ci fu un timido tentativo di costituire una rappresentativa calcistica isolana con tanto di amichevoli disputate nelle vicine isole di St Kitts and Nevis, ma la cosa non portò ad alcun sviluppo. Il calcio prese piede sull’isola a partire dal 1970 grazie ai primi Englishmen di ritorno in patria. Si trattava di un calcio di strada, senza troppe pretese e troppo povero per dar vita a un movimento sportivo e a un campionato locale. La svolta giunse nel 1991, quando la locale federazione calcistica avviò il percorso di affiliazione a CONCACAF e FIFA – affiliazioni ottenute nel 1994 e 1996 – facendo debuttare ufficialmente la nazionale a St Lucia (sconfitta per 3-0) per poi pareggiare il primo incontro casalingo contro Anguilla (1-1). È proprio contro Anguilla che Montserrat riuscì a ottenere i due soli successi nei primi 27 incontri internazionali disputati tra il 1991 e il 2012. Le poche partite garantite dalla CONCACAF, unite all’impossibilità di giocare e sviluppare il calcio nell’isola durante l’epoca di ricostruzione, fecero precipitare Montserrat all’ultimo posto del Ranking FIFA, posizione che l’isola ricoprì per diversi anni. 

Il mondo conosceva l’isola smeraldo per il suo vulcano e per il suo essere cenerentola del calcio mondiale, più debole di San Marino, Maldive, Guam, Isole Salomone e Bhutan, note all’epoca come squadre abbonate alla sconfitta in goleada. Tale situazione spinse la FIFA e alcuni partner privati a organizzare nel 2002 l’evento The Other Final, la coppa contesa dalle due ultime nazionali della classifica FIFA. Fu così che la nazionale senza campo, senza un vero campionato, senza uniforme e con una rosa ridotta all’osso si imbarcò in un viaggio senza fine alla volta di Thimphu, la capitale del Bhutan. La partita fu senza storia, segnata – com’era ovvio che fosse – dai 2300 metri di altitudine che resero ancor più ardua la sfida per i caraibici. Il 4-0 finale patito da Montserrat fu parzialmente digerito dallo scambio culturale e dall’esperienza vissuta da giocatori che avevano necessità di raccontare e raccontarsi oltre a giocare al pallone. A partire dal 2004, Montserrat è stata in grado di ospitare di nuovo le partite casalinghe per la prima volta dalle eruzioni. 

Le poche partite garantite dalla CONCACAF, unite all’impossibilità di giocare e sviluppare il calcio nell’isola durante l’epoca di ricostruzione, fecero precipitare Montserrat all’ultimo posto del Ranking FIFA,

La vera svolta arrivò grazie a due nuovi progetti targati FIFA e CONCACAF: il primo riguardante le sovvenzioni dirette per la costruzione di un impianto da mille posti accompagnato da un programma di sviluppo del calcio giovanile; il secondo riguardante la nascita della Nations League. Tra il 2012 e il 2017 Montserrat riuscì a giocare soltanto sette gare, tutte impari o decisive per le qualificazioni ai tornei. Con l’avvento della Nations League il numero di partite giocabili è cresciuto esponenzialmente e ha permesso agli isolani di misurarsi anche con squadre dello stesso livello. Dal 2018 a oggi sono state disputate 18 partite nelle quali Montserrat è riuscita a sorprendere l’intero continente vincendo in ben otto occasioni contro avversarie di rango superiore (Repubblica Dominicana e Belize su tutte), sfiorando la qualificazione alla Gold Cup, il massimo torneo continentale per nazionali.  

La vera svolta arrivò grazie a due nuovi progetti targati FIFA e CONCACAF: il primo riguardante le sovvenzioni dirette per la costruzione di un impianto da mille posti accompagnato da un programma di sviluppo del calcio giovanile; il secondo riguardante la nascita della Nations League.

Il merito di questo cambiamento è dato senza dubbio dal crescente utilizzo di talenti aventi origini e radici di Montserrat, nati e cresciuti in Inghilterra e impegnati a tutti livelli del movimento calcistico locale. Tra i giocatori che hanno rinunciato alla divisa dei Tre Leoni in favore di quella smeraldo di Montserrat c’è l’attaccante del Nottingham Forrest, Lyle Taylor, autore sin qui di ben dieci reti in nazionale che lo hanno reso l’idolo di tutta l’isola.

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The Other Final: Bhutan-Montserrat

Come lui, tanti sono i calciatori che si imbarcano i lunghi viaggi per conoscere e rappresentare la propria terra, e ciò ha riacceso la passione e l’orgoglio di tutti i figli della patria che sono letteralmente innamorati dei loro Emerald Boys. Il sogno di tutti è guadagnarsi un posto nella fase a gironi della Gold Cup, anche se nell’ultimo periodo le cose non stanno andando come sperato e la nazionale non è riuscita a viaggiare verso le Bermuda per giocarsi la partita di qualificazione. Qualunque sia il futuro calcistico dell’isola, il popolo di Montserrat potrà sempre contare sulla propria nazionale, il vero simbolo di riscatto patrio che non potrà essere spazzato via da nessun cataclisma.

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