Ibrahim Maalouf
Ibrahim Maalouf

Questo è spettacolo, non jazz!

Teatro Dal Verme, ore 20.30. Le luci si affievoliscono e urla da stadio invadono tutto il teatro. Tra il tripudio generale fa il suo ingresso sul palco Ibrahim Maalouf, accompagnato dal chitarrista François Delporte. Le urla e gli applausi continuano per altri minuti finché il compositore prende il microfono, accompagna l’affievolirsi dell’ovazione e con la sua solita ironia si presenta. Spiega che sarà un concerto intimo, una chiacchierata con il suo amico François, un ritornare alle origini della sua musica. Si scusa se durante il concerto parlerà troppo, ma per lui sembra che spiegare le sue canzoni sia importante tanto quanto suonarle. Dopo altri pochi minuti di intro, intervallati da aneddoti sulla sua vita, inizia a suonare alcuni suoi pezzi storici, tra cui True Sorry, Happy Face e la poetica Lévitation, suonata al piano a luci spente e una coreografia di cellulari accesi. Nell’estasi generale di gente che in tutte le successive canzoni balla anche da seduta, il mio orecchio viene catturato dalla voce affannosa e profonda del mio vicino di posto, che mi guarda e deluso sentenzia: “Questo è spettacolo, non jazz“. Era un uomo sulla sessantina, barba bianca incolta, occhiali ed espressione da orso polare. Lo avevo notato fin da subito e non solo perché si era seduto accanto a me, ma per altri due altrettanto validi motivi. Il primo era la maglietta del Milano Jazz Festival; la indossava come se fosse la sua bandiera, un modo senza ambiguità di presentarsi agli altri come un vero appassionato di jazz. Non era lì come molti di noi per partecipare ad un concerto, lui era lì per ascoltare del jazz. Il secondo motivo era legato al fatto che fosse venuto da solo. A sottolineare quanto prima: lui era lì per il jazz. Non era l’unico, a dire il vero. Ne avevo adocchiato un altro, più giovane del mio assiduo spettatore. Il giovane non aveva nessuna maglietta o gadget del festival; era vestito in modo distinto, ma anche lui mi dava l’idea di esser lì non per l’artista ma per la musica.

Oggigiorno sentiamo dire tante cose sulla musica jazz: è solo per intenditori, è troppo difficile da capire, è passata, inattuale; e da ultimo, che il jazz è già sulla strada per il cimitero. Eppure al concerto del trombettista franco-libanese, il jazz è sembrato più vivo che mai, anche se, agli occhi del mio vicino, quello non era jazz. 

Ma cos’è il jazz?

Ibrahim Maalouf
Ibrahim Maalouf

Sarebbe semplicistico rispondere citando Novecento di Baricco: “Quando non sai cos’è, allora è jazz!” Quasi tutte le attività artistiche o di intrattenimento hanno sempre dei filtri per aiutare il neofita a capire le finezze e a guidarlo per apprezzare ciò che sta vedendo: gli eventi sportivi hanno i telecronisti, l’opera ha i libretti e i programmi di sala, i musei hanno le audioguide, la musica pop ha le lyrics dei testi. Il jazz no. Quando si parla di jazz si entra in un territorio mistico, insidioso. Si entra diritti nell’intimità della musica senza filtri. Wynton Marsalis, uno dei più importanti compositori jazz contemporanei, ha scritto: 

Non è facile trovare le parole per esprimere le emozioni trasmesse dai musicisti di jazz. Non esiste un nome per descrivere la luce che filtra oltre le tende nella tua stanza da bambino. O il dolore che ti provocano le derisioni dei compagni. Non c’è una parola che possa descrivere certi silenzi di un viaggio in macchina a tarda notte con tuo padre, o quando adori il sorriso di tua moglie quando provi a canzonarla. Eppure sono sentimenti reali, ancora più reali proprio perché non si possono tradurre in parole. Il jazz concede al musicista di comunicare all’istante la precisa sensazione di un’esperienza di vita; di converso, la schiettezza della rivelazione induce l’ascoltatore a condividere la stessa esperienza.

Il jazz è una musica che non si balla. Il suo beat non è fisso, ma muta; i ritmi sono imprevedibili, figli del momento. La difficoltà di capire e apprezzare il jazz è tutta nell’improvvisazione. Il significato di una canzone è legato al ricordo che abbiamo di essa, ma questo non vale con il jazz che vive nell’esatto momento in cui viene suonato. Il jazz è la musica dell’adesso. Non è una musica pensata, è una musica sentita. I jazzisti usano le loro creazioni come il loro linguaggio e quando hai capito il linguaggio non servono le parole. Sebastian Wilder, il personaggio di La La Land interpretato da Ryan Gosling, ad un certo punto, parlando del jazz dice:

È un conflitto e un compromesso, ed è semplicemente… è nuovo ogni volta. È nuovo di zecca ogni sera. È molto, molto emozionante! 

Legato a questa sua intimità, molti, come il mio vicino, lo associano a qualcosa di celato, segreto, sussurrato. Lo spettacolo di Ibrahim Maalouf al contrario è stato l’esatto opposto: uno show, al pari dei concerti pop. E non c’è nulla di male in questo. Poiché jazz è improvvisazione, la sua cifra stilistica è dettata dalla sperimentazione, non solo nella musica ma anche nel contesto in cui essa viene eseguita. La reazione del pubblico influenza non solo il come in cui il musicista suona, ma anche il cosa. I più grandi jazzisti sono stati coloro che hanno saputo condividere la propria musica con gli altri. Non solo, quando si suona insieme spesso nascono conflitti, il jazz ti obbliga ad ascoltare gli altri: a volte guidi, altre segui. 

Wynton Marsalis -  Come il jazz può cambiarti la vita
Wynton Marsalis – Come il jazz può cambiarti la vita

Esistono tanti modi di suonare jazz quanti jazzisti. Ognuno ha il suo stile. C’è la trascendente sensualità di Johnny Hodges, l’ipersensibile discrezione di Chet Baker, il virtuosismo geniale di Charlie Parker, l’angoscia nascosta di Billie Holiday, l’intelligenza di Dizzy Gillespie o l’orgoglio di Louis Armstrong. Tutti però hanno in comune l’onestà. L’urgenza dell’improvvisazione li spinge ad essere onesti, ad esprimere ciò che sentono a caldo. Non lavorano più e più volte sulla stessa melodia per trovare la versione giusta, per loro la prima è quella buona. Ed è proprio per questo che non può esistere una scuola per questo genere di musica: il jazz riguarda la persona e ciò che fa. Sidney Bechet nella sua autobiografia, Treat it Gentle, ha scritto:

L’ispirazione è il mondo che te la deve dare, il modo in cui vivi, quello che trovi nella tua vita. […] Tutto quello che succede dà un feeling alla tua vita… anche se cominci a suonare un pezzo partendo da un feeling d’amore, prima che sia finito è già diventato qualcos’altro. Il feeling dell’amore deve trovare il feeling della musica. Dopo, la musica può procedere da sola. 

La musica jazz ha come presupposto l’indiscussa superiorità del genere umano. Viviamo nell’era della tecnica, nel passaggio da un mondo reale ad uno virtuale. Eppure per quanto avanzata potrà essere l’innovazione tecnologica, non potrà competere con la profondità dell’animo umano. La creatività del pensiero, al contrario delle tecnologie, non sarà mai obsoleta. A distanza di millenni continuiamo a leggere Omero anche se non vorremmo vivere nell’arretratezza tecnologica del mondo antico. Il jazz è incontro di opposti: si richiama al blues degli schiavi, ma parla di libertà; è legato al passato, ma si rivolge al futuro; è esaltazione del talento individuale, ma è una musica collettiva.

Al contrario di quello che poteva pensare il mio vicino, il jazz si ascolta con i piedi piuttosto che con il cervello. Perché è musica condivisa, e se il jazzista si libra, statene certi lo farà anche chi lo sta ascoltando. Non c’è fine e non c’è inizio. Si suona un pezzo che ci richiama qualcosa o qualcuno e si arriva da un’altra parte, e chi suonerà dopo partirà da lì per portarci ancora oltre. È come diceva Thelonious Monk; a chi gli chiedeva: “Che succede Monk?“, lui rispondeva: “Succede sempre qualcosa. Tutto il tempo.

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