Justine Blainey

Justine Blainey: l’adolescente che ha sfidato la legge per giocare a hockey su ghiaccio con i maschi

Per la maggior parte delle persone, osservare il logo del Justine Blainey Wellness Centre è un riferimento allo sport preferito del Canada. Certo, lo è, ma per coloro che conoscono meglio la dottoressa Blainey e la sua storia, c’è qualcosa in più. Nel 1981, Justine Blainey ottenne un posto in una squadra maschile nella Metro Toronto Hockey League (MTHL), ma le fu negato il diritto di giocare. Da allora, all’età di 12 anni, e durante l’adolescenza, intraprese una difficile battaglia legale con cinque diversi casi giudiziari che culminò in un’udienza con la Corte Suprema del Canada nel 1987.

Justine Blainey
Justine Blainey

È la primavera del 1985 e la dodicenne Justine è a casa a Toronto, intenta a scrivere una lettera:

Posso giocare? È iniziato il periodo di selezione per la MTHL e credo che sentirò di nuovo le stesse parole: ‘Sì, sei abbastanza brava. Vorremmo poterti prendere. Ma sei una ragazza.’

La sua famiglia si aspettava che praticasse ciò che vedevano come “sport da ragazze”, il pattinaggio artistico e la ginnastica, mentre il fratello David praticava sport più maschili, ovvero l’hockey su ghiaccio. Tuttavia, non passò molto tempo prima che Justine iniziasse a capire che voleva qualcosa di più. E anche sua madre Caroline se ne accorse. Fu così che Justine si unì alle Leaside Wildcats, una squadra della neo-fondata Ontario Women’s Hockey Association (OWHA).

Justine seguiva il fratello quando andava ad allenarsi con la sua squadra. A volte gli allenatori le permettevano persino di entrare in pista. Era forte, veloce e poteva bloccare facilmente i tiri. Ma quando giocava con le ragazze a Leaside, la sua forza e aggressività non giocavano a suo favore. Justine voleva fare bodycheck agli avversari. È comune nell’hockey su ghiaccio maschile, ma non consentito nel gioco femminile. Le squadre per le quali David giocava avevano anche uniformi e l’attrezzatura migliori; i loro allenamenti si svolgevano al pomeriggio e si tenevano al coperto. Le pratiche di Justine con le ragazze si svolgevano alle 5.30 del mattino su una pista esterna, durante i freddi inverni canadesi. Si infilava in abiti pesanti – a volte doveva anche prendere in prestito il cappotto di sua madre – cercando di concentrarsi sul gioco ignorando il freddo.

Justine era appassionata, ma in una squadra femminile non le era permesso di eccellere. Per lei, la soluzione sembrava ovvia: non voleva solo seguire gli allenamenti di David, voleva far parte della sua squadra. David fu subito d’accordo – aveva visto quanto bene si integrasse. Anche Caroline non ebbe bisogno di molte convinzioni, avendo visto quanto fosse brava. Convincere tutti gli altri fu un’altra questione; subì un trattamento orribile.

Avevo solo 11-12 anni. Entrarono e dissero: ‘Non può salire sul ghiaccio. Non abbiamo assorbenti, non abbiamo protezioni, non abbiamo modo di garantire la sicurezza adeguata nel caso si faccia male. Ha bisogno di protezioni adeguate per proteggere il suo seno.’ Ero mortificata. Ero così giovane. Non volevo che nessuno parlasse del ciclo mestruale. Volevo solo nascondermi. Ma mio fratello era sempre lì per sostenermi.

Grazie all’intermediazione di Lois Kalchman, reporter del Toronto Star, Justine e Caroline conobbero Anna Fraser, capo dello studio legale vicino al giornale. In quel momento, Fraser non praticava quel tipo di diritto, ma voleva immediatamente essere coinvolta. Sua figlia Dierdre ricorda l’entusiasmo di sua madre per il caso. “Il tema dei diritti umani le importava così tanto. Mia madre lo vedeva come un caso ideale perché capiva che non si trattava di giocare a una partita né di una bambina che aveva una qualche disputa con un’organizzazione sportiva. Vedeva il caso per quello che era: un caso di diritti umani“.

Justine e Caroline si recarono nello studio legale nel centro di Toronto. “Ero un po’ nervosa“, ricorda Justine. “Ma lei era incredibile. Parlava con me. Mi guardava negli occhi. Non stava parlando con mia madre. Non stava cercando di persuadere mia madre. Mi stava chiedendo, con domande semplici, cosa volevo e perché. Mi sentivo ascoltata. Avevo la sensazione che le importasse di ciò che mi interessava“. Fraser accettò di rappresentare Justine. Non come parte del suo lavoro quotidiano, ma nel suo tempo libero. E gratuitamente.

Fraser cercò di presentare un reclamo alla Commissione dei diritti umani dell’Ontario, ma senza successo. Mentre il codice affermava che non si poteva discriminare in base al sesso, la sezione 19.2 conteneva un’eccezione per la quale la separazione nello sport tra ragazze e ragazzi era considerata legittima. A quel punto alla Fraser non restava che far dichiarare incostituzionale la sezione 19.2. Non sarebbe stato facile. Avrebbe coinvolto la Corte Suprema dell’Ontario. Avrebbe coinvolto aule, giudici, lunghi discussioni legali. E tutto senza garanzia di successo. Justine fu messa di fronte a una decisione difficile e alla fine decise di intraprendere le azioni legali. L’11 settembre 1985, lei, Caroline e il loro avvocato comparvero in tribunale. Fraser presentò i suoi argomenti:

  • Justine era una giocatrice di hockey eccezionale e desiderava qualcosa di più di quanto potesse offrire il team femminile;
  • Era stata scelta per unirsi ad una squadra maschile perché era abile. Fraser sosteneva che le ragazze nello sport avrebbero dovuto esser giudicate solo per merito e non trattenute a causa del loro sesso;
  • La Costituzione canadese includeva una sezione nella Carta dei diritti che stabiliva che ogni persona in Canada era – agli occhi della legge – uguale. Quindi, perché Justine non veniva trattata come un’uguale sul ghiaccio?
Justine Blainey

Il caso fu anche supportato da una testimonianza di Abby Hoffman. Nel 1956, all’età di nove anni Hoffman aveva giocato a hockey su ghiaccio in una squadra maschile a Toronto per circa cinque mesi fino a quando non venne scoperta e scoppiò un’eco mediatica nel mondo conservatore canadese. Un caos che pose fine ai sogni di carriera nel mondo dell’hockey per Abby. Si dedicò ad altri sport, soprattutto all’atletica leggera. Vinse otto campionati canadesi negli 800 metri, detenendo il record nazionale per oltre un decennio, e partecipò alle Olimpiadi quattro volte. Nel 1981 divenne la prima donna ad essere nominata Direttore Generale dello Sport. La sua parola significava molto, e il caso di Justine colpì nel segno.

Tutto quello era un’evoluzione di ciò che avevo vissuto. Quando ho iniziato seriamente nell’atletica leggera all’inizio degli anni Sessanta, la distanza più lunga che alle donne era permesso correre era di 800 metri. Le maratone erano del tutto impensabili.

Abby Hoffman

Secondo Hoffman, la narrativa dominante dell’epoca era che le donne non potevano competere in maratone perché avrebbero danneggiato i loro organi riproduttivi. Non era nemmeno la prima volta che offriva il suo sostegno in un caso del genere. Nel 1976 testimoniò al processo Gail Cummings versus OHA. Il caso era fondamentalmente lo stesso di quello di Justine: voleva giocare con i ragazzi. Cummings perse.

Nel caso di Justine, l’OHA aveva tre argomenti chiave:

  • Ragazzi e ragazze dell’età di Justine erano fisicamente troppo diversi per giocare a hockey su ghiaccio insieme. L’avvocato lesse una citazione del capo dello staff medico della squadra del Canada che sosteneva questa tesi;
  • Justine poteva giocare a hockey in una squadra dell’OWHA;
  • Mantenendo separate le ragazze e i ragazzi, l’OHA stava effettivamente aiutando le ragazze che volevano giocare. Se le squadre miste fossero state introdotte, tutto il talento delle squadre femminili sarebbe andato perso. L’OWHA lo appoggiò su questo punto.

Il 25 settembre 1985 arrivò la sentenza: Justine e Caroline avevano perso. Il giudice ritenne che l’OHA avesse un argomento più forte nel mantenere le regole così come erano, separando ragazze e ragazzi nell’hockey. Respinse anche l’argomento costituzionale di Fraser, sostenendo che tecnicamente non si applicava in quel caso.

Per Justine fu devastante. A causa della diffusione delle notizie sul procedimento legale, affrontò una reazione negativa da tutta la comunità dell’hockey, comprese le squadre femminili. “Durante il processo, le cose sono state difficili” dice. “Alcune delle cose sono accadute proprio alle elementari… nessuno voleva sedersi accanto a me. Nessuno voleva avere un armadietto accanto al mio. Se stavo andando alla mensa, rimanevo da sola. Ricordo che hanno preso un assorbente e ci hanno messo sopra del ketchup con il mio nome e l’hanno passato in giro per la classe, ed è stato mortificante“.

Le cose presero una piega terrificante nel 1986. “Ero in metropolitana per andare a trovare il mio ragazzo “, dice. Justine era abituata a sentirsi a disagio nei luoghi pubblici: le persone la fissavano, le urlavano, le lanciavano addirittura cose e le sputavano addosso.

In cima alle scale della piattaforma della metropolitana, ricorda di aver sentito una spinta. “Sono rotolata giù per la scala“, dice. “È successo molto rapidamente. Sono rotolata fino in fondo e sono rimbalzata sul vagone in movimento e sono atterrata sulla banchina. Mi sono subito rialzata. Nessuno è venuto a chiedere: ‘Stai bene?’ Nessuno è venuto a dire: ‘Cosa è successo?’ Nessuno ha detto nulla.” Incredibilmente, Justine non riportò ferite. Ma era solo una adolescente e si sentiva totalmente umiliata.

Justine Blainey

Justine aveva comunque qualche sostegno. Poco prima che iniziasse la sua battaglia legale, si era brevemente unita – e aveva giocato – in una squadra maschile di hockey, i Toronto Olympics. Rilasciarono una dichiarazione:

Vogliamo che tutti sappiano che consideriamo ancora Justine Blainey una compagna di squadra, e speriamo che vinca il suo caso questa volta in modo che possa giocare nei play-off.

Quel “questa volta”, si riferiva a un appello che Fraser aveva presentato. Anche se avevano perso alla Corte Suprema dell’Ontario, c’era ancora la speranza che la decisione potesse essere annullata in appello. Quindi, il 22 gennaio 1986, 11 giorni dopo il suo 13° compleanno, Justine tornò a Osgoode Hall, alla Corte d’Appello dell’Ontario. La corte aveva riesaminato le prove: gli argomenti presentati da entrambi gli avvocati, la dichiarazione di Abby Hoffman e altri documenti importanti dal primo caso. L’appello durò solo tre giorni, ma ci vollero tre mesi prima di arrivare ad una conclusione. Poi, il 17 aprile, la corte d’appello si pronunciò a favore di Justine. Decise di abolire la sezione 19.2. E la decisione non si applicava solo all’hockey su ghiaccio, ma a qualsiasi sport.

Quando abbiamo vinto, sono stata come: ‘Sì! Questo è incredibile! Potrò giocare!’“, dice Justine. Non era così semplice. L’OHA voleva fare appello contro l’appello. Per farlo, doveva portare il caso alla Corte Suprema del Canada, il massimo tribunale del Paese. Ottawa dista più di 400km da Toronto, la città natale di Justine. Lei e Fraser presero un volo, ma Caroline, a causa della mancanza di fondi, dovette rimanere a casa. “Sono andata con Anna, ma in tribunale c’erano da una parte un gruppo enorme di persone e dall’altra eravamo solo Anna ed io“.

Fortunatamente per Justine, i giudici della Corte Suprema non impiegarono molto a prendere una decisione. Dopo appena 24 ore, decisero a suo favore. La corte respinse l’appello dell’OHA e concordò sul fatto che il Codice dei diritti umani dell’Ontario dovesse cambiare, per impedire che ragazze e ragazzi venissero separati nello sport.

Ma non era ancora la fine.

A questo punto, Justine era stata accettata in una nuova squadra maschile, Etobicoke Canucks, e aveva l’impressione che le fosse finalmente permesso di giocare con loro nelle partite di campionato. Ma era solo un’illusione. La Corte Suprema non aveva ordinato all’OHA di fare nulla. Tutto ciò che aveva fatto era abolire la sezione 19.2. Questo non garantiva automaticamente a Justine un posto nella Lega. Ciò che faceva era semplicemente aprirle la porta per tornare al punto di partenza e difendere nuovamente il suo caso. L’OHA aveva offerto a Justine un’eccezione alle regole che le avrebbe permesso di giocare, ma nessun’altra ragazza in futuro avrebbe beneficiato di tale eccezione. Lei rifiutò. Nei mesi successivi ci furono udienze su udienze. Justine e Caroline, a differenza della prima volta, furono interrogate sotto giuramento. Il loro caso fu ascoltato dalla Commissione per i Diritti Umani e poi da un Board of Inquiry. Quelli che dovevano essere pochi mesi si trasformarono in un anno. E in tutto quel tempo, Justine rimase in una sorta di limbo, impossibilitata a giocare con i ragazzi. Era esausta.

Finalmente poche settimane prima del suo 15° compleanno ebbe il via libera. Ce l’aveva fatta finalmente. Dopo tre anni e una serie di importanti cause legali, aveva vinto. Era stata appena accettata in una nuova squadra, gli Eastenders. Dato che il posto di Justine era stato dato ad un altro giocatore a causa dell’incertezza dell’esito del processo, suo fratello David, che giocava nella stessa squadra, le lasciò il posto.

Per alcune settimane la copertura del caso di Justine continuò, con la gente che discuteva se fosse un passo avanti o indietro per l’hockey. Poi, man mano l’hype scemò. A Justine rimase il compito di raccogliere i pezzi e cercare di tornare ad una vita normale. Continuò a giocare con i ragazzi per alcuni anni. Ma, come ricorda, c’erano ancora persone che non volevano vederla sul ghiaccio con i ragazzi, e non lo nascondevano. Alla fine della sua tarda adolescenza, decise di tornare a giocare con le ragazze. Oggi è più facile per le ragazze in Ontario giocare nelle squadre maschili se lo desiderano. Nella stagione 2015-16, quasi 100 ragazze giocavano insieme ai ragazzi nella MTHL.

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