Kareem Abdul-Jabbar

Kareem Abdul-Jabbar

Kareem Abdul-Jabbar, inventore dello Sky Hook, è stato per anni uno dei migliori interpreti del basket americano, dalle high school all’NBA, passando per l’università di Ucla, in California, dove fui allenato da John Wooden. Nella lega professionistica è stato il centro prima dei Milwaukee Bucks e poi del Los Angeles Lakers dello “showtime”, ed una delle figure più rappresentative anche della battaglia degli afroamericani per l’uguaglianza sociale. È ancora il numero 1 nella classifica “all-time” dei realizzatori dell’NBA con 38.387 punti messi a segno nelle 1560 partite disputate con una media di 24,6 a cui aggiunge 11,2 rimbalzi per gara, chiudendo così la sua straordinaria carriera in “doppia doppia” di media.

Kareem Abdul-Jabbar ha avuto e continua ad avere una grossa influenza nella “pop culture”. L’ex Lakers è stato da sempre un’icona morale sia per le persone della sua generazione che per i più giovani. Non solo per essere stato allievo di Bruce Lee e aver combattuto contro di lui nel film L’ultimo combattimento di Chen, ma soprattutto perché si è sempre schierato dalla parte delle persone più deboli. Già nel giugno del 1967 era presente insieme ad altri conosciutissimi atleti di colore nella manifestazione in appoggio a Muhammad Ali per la sua scelta di non partecipare alla guerra del Vietnam. Allora non aveva ancora abbracciato la fede musulmana ed era Lew Alcindor. Un anno dopo non prese parte alle Olimpiadi del Messico in rappresentanza degli USA e in seguito alla sua conversione, che avvenne 3 anni dopo, nel 1971, si riaprì con grande seguito dei media il dibattito sulle condizioni in cui le minoranze religiose e quelle etniche vivevano negli Stati Uniti dell’epoca.

Non stupitevi se non sono patriottico, pochi neri lo sono. Siamo troppo impegnati a mettere insieme il pranzo con la cena per andare in giro a strepitare sulla terra dei liberi e sulla patria dei coraggiosi

Nel libro autobiografico intitolato Sulle spalle dei giganti, Kareem Abdul-Jabbar ha raccontato la “Harlem Reinassance“, chiarendo come la dignità del moderno afroamericano negli USA sia stata rinnovata non solo attraverso il basket ma anche attraverso la musica jazz, la letteratura e l’arte. In uno dei capitoli del libro che si intitola Sperando contro ogni speranza, Abdul-Jabbar fa capire come queste siano le componenti che portano verso l’uguaglianza sociale, dando un’identità più forte ai ragazzi di colore e aiutandoli nella sopravvivenza quotidiana. Un tema che il campione di basket americano aveva anticipato, seppur in modo parziale, nel suo libro precedente, intitolato Coach Wooden and Me, nel quale si parla dell’inizio della sua avventura californiana e del legame con il suo allenatore, coach Wooden.

Non ero andato in California a giocare a basket per sfuggire ai contrasti razziali che stavano spaccando in due il Paese. Ci ero andato per imparare di più su me stesso, per trovare la mia voce, per capire come potevo dare il mio contributo. Ero pronto a unirmi alla lotta, ma non sapevo ancora con quali armi avrei combattuto.

Kareem Abdul-Jabbar

Un altro esempio della grandezza morale del giocatore si ebbe al momento del suo passaggio al professionismo. Nel 1969 esistevano negli Stati Uniti due leghe professionistiche e Lew Alcindor venne scelto da una formazione di entrambe le leghe, e dichiarò che avrebbe valutato le due offerte per poi scegliere. I New York Nets, appartenenti alla ABA, contavano sulle sue origini newyorkesi, ma i Milwaukee Bucks della NBA avevano formulato un’offerta più alta e quindi furono i prescelti. Subito dopo la squadra di New York emise un’offerta più vantaggiosa di quella dei rivali, ma il giocatore confermò la sua scelta dichiarando:

Una guerra economica degrada le persone, non voglio sentirmi un pezzo di carne in vendita.

Che il giovane Lew Alcindor fosse un predestinato era chiaro fin dalle sue stagioni nella high school cattolica di Manhattan, la Power Memorial Academy. In quegli anni riscrisse tutti i record con due sole partite perse a fronte di 79 successi e con 2.067 punti segnati che gli valsero il soprannome di “The Tower Of Power“. L’arrivo all’UCLA lo vide ancora capace di stupire con un primo incontro in cui segnò 56 punti, portando poi la squadra nel periodo della sua permanenza a 88 vittorie. Il suo dominio sotto canestro era talmente grande che fu emessa la regola che vietava le schiacciate, ma questo non impedì la conquista dei titoli universitari e di MVP. Durante la sua permanenza a Milwaukee fu coniato il termine Sky Hook quando Eddie Doucette descrisse così il suo caratteristico tiro: “That hook was so high, that is coming out from the sky“, letteralmente non stoppabile.

Finita la sua eccezionale carriera, l’ex centro dei Lakers ha venduto quasi tutti i suoi trofei in un’asta benefica. I fan e gli appassionati di basket hanno risposto alla grande e il ricavato dell’asta, circa 3 milioni di dollari,  è stato devoluto ad un’associazione che si occupa di garantire un futuro migliore ai bambini che si trovano in ristrettezze economiche e provengono da situazioni familiari ed ambientali difficili. Tra i trofei che sono stati messi all’asta anche l’anello della stagione 1987 che è stato aggiudicato per la cifra di 398.937,50 dollari.

Quando uno sportivo famoso annuncia la decisione di vendere tutto quello che ha vinto in carriera, i tifosi di solito pensano al peggio. Non è il mio caso. Sono da sempre un collezionista di: tappeti orientali, armi del Vecchio West, monete dal mondo. Tutti oggetti che mi hanno permesso di capire meglio il posto da cui venivano. I miei trofei sportivi hanno una storia, la mia storia. Ma invece di crogiolarmi nel luccichio di un trofeo che celebra qualcosa che ho fatto molto tempo fa, preferisco guardare la faccia deliziata di un bambino che tiene in mano la sua prima gru giocattolo e pensare a cosa posso fare per aiutare il suo futuro perché quella è una storia che non ha prezzo.

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