mansour city

Il calcio in multi-proprietà

Il calcio è davvero un business in perdita? Per moltissimi sì, per altri (pochi) a quanto pare no. Non lo è per lo sceicco Mansour, il proprietario del Manchester City, che ha acquistato la sua nona squadra di calcio e che non contento avrebbe messo gli occhi anche sulla decima. Pronto dunque, a cucirsi sul petto la “stella” che nel calcio indica la decina di successi e che, in questo caso, indica il 10 alla voce “squadre di proprietà”. Lo sceicco ha fatto il suo debutto nel calcio proprio partendo da Manchester, sponda City. Mettendo in serbatoio milioni e milioni di sterline, ha riportato i Light Blue al successo, non senza faticare. Nei primi anni infatti, nonostante le grandi possibilità economiche, i campionissimi del calcio non hanno visto di buon occhio l’opportunità di vestire la maglia del City (vedi il caso Kakà, ndr). Anche perché, prima dei soldi, solitamente l’appeal di un club lo fanno i calciatori presenti, l’allenatore e l’idea di un progetto serio e pianificato negli anni. Solo con Mancini nel 2012 vince Premier League che mancava dal 1968 e da lì l’ascesa è continuata. Sono arrivati giocatori sempre più importanti e dal 2016 è planato nel pianeta City anche uno degli allenatori più rivoluzionari degli ultimi 15 anni, Pep Guardiola, che ha aperto nella Manchester, una volta poco “glam”, il suo nuovo laboratorio sperimentale di calcio ragionato.

Ma torniamo a Mansour. Dopo il City, lo sceicco sembra essersi innamorato dell’investimento “pallonaro” ed ha investito in Spagna (Girona), nella rilanciata MLS (New York City), nel calcio che fu di Holly e Benji (Yokohama Marinos), nella Super League cinese (Sichuan Jiuniu) nel calcio dei canguri (Melbourne City), alle radici della “garra charrùa” (Montevideo City Torque) ed infine in Belgio (Lommel SK), forse stimolato dalla presenza nel City di due campioni di quelle zone come De Bruyne e l’ex Kompany. La prossima da aggiungere alla lista sembra essere il Nancy, squadra che milita nella Ligue 2 francese così da allargare il suo mazzo a 10 squadre distribuite su cinque continenti. Un numero e una distribuzione geografica per dar vita potenzialmente a un torneo mondiale tra sole squadre di proprietà Mansour.  Ora, pensate a cosa vuol dire essere presidenti di così tante squadre. Se pensiamo al calcio di casa nostra, ci sono stati degli esempi simili, ma pur sempre legati a realtà di provincia dove la gestione societaria non era ancora schiava del marketing, del business e del fatturato. Giusto per fare qualche esempio: Luciano Gaucci è stato contemporaneamente presidente di Perugia, Catania e Viterbese. Tre squadre nello stesso Paese, distribuite tra Serie A, B e C. Le avventure sono state differenti e dalle alterne fortune. Sfido chiunque a dimenticare il Perugia di Cosmi, Materazzi, Liverani e Nakata e allo stesso tempo sfido a ricordare qualcosa del Catania pre-Pulvirenti e della Viterbese. Tutto regolare e tutto gestito con la passione che guidava i vecchi presidenti del nostro calcio.

Per fare due esempi dei giorni nostri e legati al nostro campionato, è inevitabile citare i casi Lotito e Pozzo. Il presidente della Lazio è proprietario anche della Salernitana, club di Serie B che negli anni è servito anche da “serbatoio” biancoceleste e squadra utile per il tirocinio italiano di calciatori stranieri o di ragazzi delle giovanili che, prima di essere buttati in pasto della Serie A, hanno avuto la chance di mettersi alla prova con un calcio vero senza eccessivi rischi di scottarsi prematuramente. E se son rose, fioriranno, si dice. Per citare un caso, senza fare tutto l’elenco – lungo, ve lo assicuro – di giocatori che hanno fatto la spola tra Salerno e Roma, lo stesso Simone Inzaghi sembrava destinato (nell’estate del 2017) a ripartire dalla Salernitana, dopo che la Lazio aveva deciso di affidare la squadra a Marcelo Bielsa. Ma il Loco si dimette ancor prima di cominciare, così Inzaghi torna in panchina e ora è uno degli allenatori più stimati della Serie A. I casi della vita. Maligni dicono che la Salernitana non sia mai salita in A durante la gestione Lotito per evitare che il conflitto di interessi diventasse troppo palese. Chissà. L’altro caso, quello della famiglia Pozzo, ha visto per anni investimenti oculati e risultati strabilianti in quel di Udine, con i bianconeri costantemente in lotta per un posto in Champions League. Con il passare degli anni però, l’attenzione si è man mano spostata verso le latitudini londinesi, dove la famiglia ha deciso di investire nel Watford, la squadra che fu di Elton John. In passato, le seconde linee dell’Udinese finivano in Inghilterra, ora il percorso sembra essere il contrario. Sarà per il maggior appeal della Premier League, sarà per un calo visibile a distanza chilometrica del livello della Serie A, sta di fatto che i Pozzo a Udine ormai non stanno investendo più di tanto e la squadra vivacchia nella metà bassa della classifica da ormai troppe stagioni. E di campioni all’orizzonte – del livello di Di Natale, Bierhoff o David Pizarro – non sembrano essercene.

Caso diverso quello della Red Bull. L’azienda produttrice di bibite energetiche ha deciso di investire pesantemente nello sport per trasmettere i suoi valori aziendali, che puntano sulla velocità, la massimizzazione delle prestazioni. In pratica la concretizzazione del claim Red Bull ti mette le ali. Le ha messe in Formula 1 con la scuderia campione del mondo con Sebastian Vettel. Lo ha fatto sponsorizzando il salto da record di Felix Baumgartner. Ha consolidato la sua presenza con diverse squadre di calcio, andando a creare un dualismo tra sentimento e ragione nelle tifoserie, soprattutto in Germania e Austria. Il Lipsia è di gran lunga la squadra vista con meno simpatia dagli appassionati di pallone teutonici che riconoscono nella formazione Red Bull l’incarnazione del calcio-business che poco appassiona e molto fattura. Stesso discorso a Salisburgo, anche se in tono minore. Tra le due squadre, ovviamente (un po’ come nel caso Lotito tra Lazio e Salernitana o la storia dei Pozzo), c’è un flusso costante di giocatori che si fanno le ossa in Austria e poi si trasferiscono in Bundesliga. Azione legale, ma che fa perdere un po’ di poesia e si presta facilmente a giochini finanziari per appianare bilanci. Ma questo è un altro (noioso) discorso. Ma torniamo, ancora una volta, a Mansour. Non c’è niente di male, nel momento in cui si hanno soldi da investire, ad avere più di una squadra di calcio, ma se ci pensiamo bene questo potrebbe fare da scuola per chi, come lo sceicco, volesse diventare multi proprietario del calcio. Se Mansour ha 10 squadre e, mettiamo caso, Jeff Bezos (il proprietario di Amazon) decidesse di investire nel calcio e acquistarne altre 20, e lo stesso decidessero di farlo Bill Gates, il sultano del Brunei e qualche altro multimiliardario presente sul pianeta, il calcio non rischierebbe di diventare un centro di potere in mano a pochissimi personaggi?

La risposta a questo rischio è: sì, può accadere. Può succedere che in futuro ci troveremo ad assistere a un calcio diverso rispetto a quello che siamo stati abituati a seguire finora, magari più spettacolare, ma in fondo un po’ più finto, senza vere rivalità. È triste, ma questo rischio c’è. O almeno, se continueremo a pensare che il calcio, per poter stare in piedi, deve essere inteso solo ed esclusivamente come un business, che le squadre debbano funzionare come aziende e che tutto sia dettato solo ed esclusivamente da questioni economiche.

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