58 Marco Simoncelli

“58”, Marco Simoncelli

Estratto dal libro illustrato "58"

Era un giorno come tanti e Marco camminava per le strade di Coriano. Aveva poco più di dieci anni, ma sembrava quasi un uomo. Sapeva bene già cosa voleva e come ottenerlo. Non gli piaceva la scuola. I compagni lo prendevano in giro per quell’ammasso informe di riccioli che aveva in testa. E poi parlava sempre e solo di moto, motori e piloti. «Diventerò il pilota più forte del mondo», ripeteva ai suoi genitori e amici. Ma nessuno lo prendeva sul serio. Ridevano e passavano oltre. Così appena poteva, se ne andava in giro. Da solo, in cerca di cosa, non lo sapeva nemmeno lui. Tra un calcio a una bottiglietta, il salto in una pozzanghera e i bisogni all’angolo tra le siepi, era così che Marco passava le sue giornate. Ma nelle vene c’era la voglia di qualcosa di più.

Comincia così 58, la favola illustrata che ho scritto su Marco Simoncelli e disegnata da Noemi Parente. Un romanzo per ragazzi, e non solo, che cerca di trasmettere le emozioni, i valori e tutto ciò che è stato il Sic, e lo fa attraverso una relazione, un legame, un vincolo emotivo tra Marco, un semplice ragazzino di dieci anni che ha una vita complicata e un grande sogno nel cassetto – quello di diventare Campione del Mondo – che solo ascoltando i consigli di un mentore come il Sic può sperare di agguantare.

58 Marco Simoncelli

Ma facciamo un passo di lato. Il libro parla di Marco Simoncelli, anzi è denso del Sic, un ragazzo sorridente, solare, trasparente, sincero, irriverente, diretto. Un personaggio sportivo che, più di tutti nei primi anni del Duemila, è riuscito ad attrarre appassionati nei circuiti e telespettatori a incuriosirsi davanti alla tivù la domenica mattina. Il suo magnetismo era attraente, il suo intercalare schietto e spesso volgarmente affascinante; il suo stile moderno lo ha reso in qualche modo l’ultimo di una specie ormai estinta: l’ultimo pilota dall’animo rock, che se ne sbatteva di essere educato, di essere giusto, di essere politicamente corretto. Sic era come era, ed era bello così. Ed è questo che mi piace che possa trasparire dal libro. Lo dico a tutti, ai ragazzi, ai miei coetanei, a chi è anagraficamente più grande, a chi verrà, a chi mi sta a fianco e anche a me stesso: ricordiamoci di essere noi stessi, sempre. Qualsiasi cosa accada non perdiamo di vista chi siamo, ma chi siamo davvero, non ciò che siamo per la società o per qualcun altro. Diamo conto al nostro io più profondo, ricordandoci che è lì che siamo davvero noi. Via le maschere, via tutto. Restiamo solo noi e se saremo davvero noi, non saremo mai soli. Qualcuno pronto ad apprezzare la nostra essenza e la nostra intimità esiste e sarà sempre pronto a stenderci la mano e venirci in aiuto.

Era un giorno come tanti quando il Sic ci ha lasciato. Avevo fatto le ore piccole il sabato sera e non mi ero svegliato in tempo per l’inizio della gara. Mi ricordo che sentii mio padre entrare in camera mia, stavo per mandarlo a quel paese perché volevo continuare a riposare, ma con la coda dell’occhio lo vidi completamente affranto, con il magone e una lacrima sullo zigomo. Lui è uno che non piange mai e quel dettaglio mi aveva colpito immediatamente, mi sono alzato velocemente dal letto, sapevo che era successo qualcosa. “Ehi, pa’, tutto bene?“. Lui senza nemmeno voltarsi mi risponde: “Il Sic, Fabio. Ha fatto un grave incidente, è rimasto per terra immobile e hanno sospeso la gara“. Non sapevo cosa rispondere, ero freddato. Impietrito. Qualche minuto dopo, io, mio papà e mia mamma eravamo sul divano mentre stava arrivando la tragica notizia, e a comunicarlo era proprio Paolo Beltramo. Il dolore era straziante, pure per noi che lo conoscevamo solo dalla televisione, dalla passione per le due ruote, per le corse. C’è stato un silenzio assordante. Lo stesso silenzio che ogni 23 ottobre mi soffia nel cuore.

Due anni fa ho intervistato per Rolling Stone Guido Meda, la voce della MotoGP. Nella nostra chiacchierata di quasi due ore ho chiesto a Guido se avesse mai avuto paura. Mi ha risposto così:

Ho avuto paura di non riuscire a portare a termine il mio compito al meglio quando è morto
Marco Simoncelli. Perché in quel momento lì non ero soltanto il giornalista che con distacco
asettico raccontava le vicende. Io in quel momento stavo perdendo anche un amico. Ero in
diretta con milioni di italiani che mi stavano ascoltando, mentre dentro soffrivo, mi dilaniavo.
Avevo di fianco Reggiani che piangeva, si capiva che era successa una cosa grossa. La
chiave per uscire da quel momento difficile è stata quella di concentrarmi sulla sua mamma
e sulla sorella che erano a casa loro e stavano guardando la televisione. Lì per me è stato
davvero complicato, avrei voluto essere da un’altra parte.

Conosco decide di persone, non necessariamente appassionati delle due ruote che si erano avvicinate al Motomondiale per la presenza di questo ragazzo riccioluto e simpatico che portava allegria in tutte le case e che, quando Marco se n’è andato, hanno smesso di guardare le corse: troppo pericolose, troppa sofferenza, troppe emozioni. È vero, il motorsport è qualcosa di incredibilmente rischioso, ma è anche vero che l’unico modo per tenere vivo il ricordo di un mito che ha dato la sua vita per le corse è continuare a parlarne, ad alimentare la sua carriera, le sue vittorie, le sue sconfitte, le sue boiate, le sue frase incompiute e irriverenti che iniziavano sempre con Diobò… Diobò Sic.

58, la favola che ho scritto per CDM Edizioni, illustrata da Noemi Parente, lo trovate in libreria e su Amazon.

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