calcio sud serie a

La questione meridionale

Il Mezzogiorno è stato troppo ingannato e troppo deluso, perché debba provare ancora delusioni.

Francesco Saverio Nitti

Anche quest’anno l’ambito trofeo del campionato nazionale andrà ad una squadra del Nord. Ormai è diventata una routine fastidiosa quella di dover assistere ad un campionato in cui le poche squadre del Centro-Sud finiscono la stagione con zero titoli. E anno dopo anno le statistiche diventano impietose, se pensiamo che nonostante l’avvento del girone unico nel 1929 soli 8 campionati sono stati vinti da squadre del Centro-Sud (Roma, Lazio, Napoli e Cagliari). Dato ancora più sconvolgente se prendiamo in considerazione anche il numero di squadre del Meridione della Serie A: sempre meno della metà. Quest’anno sono 5 su 20 rappresentative di solo 3 regioni del Centro-Sud: Lazio, Sardegna e Campania. Il girone unico serviva per rappresentare tutta l’Italia, un Paese lungo, complesso e profondamente differenziato. E invece, guardando l’albo d’oro emerge una disparità imbarazzante tra Nord e Sud.  

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Nulla è cambiato dal 1926/27 (Immagine: Maurizio Zaccone)

Le cause sono molteplici e molte di loro ataviche che trascendono il lato meramente sportivo per rientrare in un contesto socio-economico che affonda le sue radici con l’Unità d’Italia. Ma si sa, il calcio è l’espressione delle nostre italiche contraddizioni e per questo tenteremo, ci arrischieremo nell’elencare, se non tutte, almeno le principali. 

Disparità economica tra Nord e Sud

Senza scomodare Salvemini, Nitti, Gramsci e tutti i grandi intellettuali che hanno studiato la questione meridionale, è evidente che l’economia del Sud ha sempre fatto fatica ad emergere. Primo fra tutti, al Sud mancano grandi gruppi industriali in grado di patrocinare una città, come fatto, solo per fare alcuni esempi, dalla famiglia Agnelli con Torino, dal gruppo Percassi con Bergamo, dagli Squinzi che hanno saputo portare sul palcoscenico nazionale una realtà provinciale come quella di Sassuolo. In un calcio sempre più competitivo in termini di costi, molte importanti squadre meridionali (basti guardare l’ultimo caso, quello del Catania), prive di una proprietà solida in grado di proteggere il club da turbolenze economiche, sono miserabilmente fallite. La maggior parte dei fallimenti ha coinvolto squadre del Sud, che da sempre riceve meno fondi pubblici rispetto al Nord (i dati SVIMEZ evidenziano come tra il 2000 e il 2017 manchino 840 miliardi alla spesa pubblica del Sud, a cui avrebbe avuto diritto per percentuale della popolazione). Dal rapporto annuale 2021 dell’Istat è emerso che su 11 regioni in situazione critica per fatturato, lavoro e rischi operativi, causa la pandemia, 7 sono del Mezzogiorno. Inoltre, un’analisi del Centro Studi di ItalyPost sulle imprese che hanno meglio performato tra il 2012 e il 2018 mostra come le prime tre regione per maggior numero di imprese champion sono: Lombardia (322 imprese), Veneto (175) ed Emilia Romagna (141); la prima regione del Sud è la Campania con appena 28 imprese. 

La maggior parte dei fallimenti ha coinvolto squadre del Sud, che da sempre riceve meno fondi pubblici rispetto al Nord.

È altresì vero, però, che, come dimostrato da alcune ricerche della Banca d’Italia, esistono delle vere e proprie disfunzioni e prassi fuorvianti delle “amministrazioni regionali e locali, e anche sedimentazioni profonde di comportamenti collettivi impropri”. Insomma, non solo ci sono pochi soldi, ma quei pochi sono, in parte, gestiti male.

stadio San Nicola di Bari
stadio San Nicola di Bari

Infrastrutture decadenti e mancanza di investimenti stranieri

E questa mala gestione si mostra in un mosaico di cattedrali nel deserto. È imbarazzante oggi vedere questi colossi pensati per 80/90mila posti che a fatica la domenica riescono a riempire la metà nelle partite di cartello, e lasciano una sensazione di desolazione e degrado il resto della settimana. Sono stadi, come il San Nicola di Bari progettato da Renzo Piano, nati nell’euforia dei Mondiali di Italia ‘90, dove per l’unica volta nella sua storia il Meridione ha visto investimenti importanti in ambito sportivo. Secondo la FIGC l’età media degli impianti italiani di Serie A è di 61 anni e la quasi totalità delle strutture non registra da anni lavori di rinnovamento e di adattamento alle nuove norme di sicurezza. Negli ultimi dieci anni, infatti, secondo l’Osservatorio Innovazione Digitale nell’Industria dello Sport del Politecnico di Milano, sono stati investiti solo 180 milioni di euro a fronte dei 15 miliardi di euro investiti negli stadi del resto dell’Europa. Eppure, in questa grande trasformazione del calcio che stiamo vivendo, lo stadio diventa un luogo fondamentale: non più asset immobiliare, ma infrastruttura strategica del futuro.

Secondo l’Osservatorio Innovazione Digitale nell’Industria dello Sport del Politecnico di Milano, sono stati investiti solo 180 milioni di euro a fronte dei 15 miliardi di euro investiti negli stadi del resto dell’Europa.

Il calcio è diventato un business estremamente allettante per fondi e imprenditori stranieri. Per citare Giancarlo Mazzucca de Il Sole 24 Ore

Al di là del discorso pubblicitario e promozionale, i nuovi “mister Smith del football” vogliono trasformare le società calcistiche da “monoprodotto” a “multiselling” puntando anche alla costruzione di stadi plurifunzionali come da decenni stanno facendo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

Capitali esteri sono una manna dal cielo per molti club, ma il problema è che questi capitali esteri finiscono quasi sempre in squadre del Nord. Persino lo Spezia, che né per storia calcistica né per importanza geografica può vantare una situazione migliore di diverse squadre del Sud, è stata acquistata da Robert Platek, socio della Msd Capital, una delle società d’investimento più attive nel calcio (negli ultimi anni ha prestato quasi 80 milioni di sterline al Southampton, ha fornito circa 200 milioni di sterline alla società Alk Capital per l’acquisizione del Burnley, e poi ha concesso un altro prestito al Derby County). Il motivo per cui i grandi fondi stanno puntando su club e campionati sportivi è piuttosto semplice e riguarda un cambiamento strutturale precedente alla pandemia che aveva già attirato i primi investitori: “Dall’inizio degli anni ‘90 il boom dello sport in televisione, con le pay-tv e l’impennata della vendita dei diritti televisivi, ha costruito un nuovo modello di business intorno al calcio, rendendolo una vera industria di intrattenimento e di conseguenza sempre più attraente dal punto di vista finanziario per gli investitori, sia come potenziali partner commerciali sia come proprietari”, scrive Kpmg.

La domanda è: come mai nessuno investe nelle squadre del Sud? La risposta di certo non può essere la base di tifosi, giacché molte squadre meridionali hanno un campanilismo estremo molto più acceso di diverse squadre del Nord, basti pensare a cosa è successo a Salerno a inizio anno. Allora cos’è? A questo proposito è interessante l’intervista rilasciata dall’ex numero uno della FIGC Giancarlo Abete, attuale Presidente della Lega Nazionale Dilettanti, all’agenzia Italpress:

È da 12 anni che non vinciamo più niente con i nostri club… Che grandi gruppi stranieri vogliano investire nel calcio italiano è importante e ci deve far piacere, ma altrettanto importante è capire che l’imprenditoria italiana non è in grado di reggere l’urto di questi grandi investitori internazionali perché piano piano stiamo retrocedendo. Un Inter-Milan con Moratti e Berlusconi è diverso da quello di oggi, ma dobbiamo accettarlo. Però stiamo indietreggiando e il Sud paga pegno: è sempre più difficile trovare imprenditori del Sud. La Sicilia, ad esempio, è una grande regione e non ha nemmeno una squadra in B, oltre ad aver perso il Catania per fallimento.

Il grande periodo degli anni Ottanta, quella dei presidenti tifosi, che ha visto l’apice del calcio meridionale con il 31% di squadre del Sud che hanno partecipato almeno una volta in Serie A è finita. Gli unici due esempi rimasti sono Lotito e De Laurentiis, presidenti atipici sia per il clima diffidenza e odio (come nel caso dei laziali) che esiste tra loro e i tifosi che per la mancanza di slancio che li porta a far vivacchiare le proprie squadre, contro ogni ambizione sportiva.

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Investimenti sui giovani

L’Italia è endemicamente restia ad una logica del ricambio: le nuove avide menti non hanno le stesse opportunità che hanno avuto tutte le generazioni precedenti. E il calcio non fa differenza. L’unica via è quella dell’incentivo e su questo il Sud si è mossa con una certa insistenza. Anche perché non ha alternative. Già con la Legge Melandri i giovani sono in molti casi la principale forma di guadagno (leggasi sopravvivenza) dei club di Lega Pro. Come tutte le cose, però, l’abuso ha portato molte squadre medio-piccole ad investire solo sui giovani senza badare all’aspetto competitivo e ai risultati sportivo. Ecco, quindi, che molte squadre composte da soli giovani non sono mai riuscite ad avanzare nelle serie superiori e, anzi, in molti casi sono retrocesse. C’è anche un aspetto sociale in tutto questo. Queste squadre usufruiscono dell’incentivo, puntando su giovani non del loro vivaio (inesistente), ma li prendono in prestito da altre squadre medio-grandi di altre regioni. Fondamentalmente: al Sud ci sono meno giovani. Una ricerca di Confcommercio ha evidenziato come:

dal 1995 al 2020 l’Italia ha perso complessivamente 1,4 milioni di giovani: da poco più di 11 milioni a poco meno di 10 milioni. Tutta questa perdita è è dovuta ai giovani meridionali, scesi di 1,6 milioni di unità.

Il motivo è presto detto: i giovani vanno al Nord in cerca di lavoro e alla fine si stabilizzano lì, dove creano delle nuove famiglie, i cui figli sono a tutti gli effetti settentrionali. In pratica, il Sud supporta la crescita della popolazione del Nord a proprio discapito. Questo, nell’ottica puramente sportiva, significa che le squadre meridionali statisticamente hanno meno talenti su cui investire. 

Insomma, per supportare il Sud, al di là degli investimenti che andrebbero fatti, si dovrebbe ripensare la Serie A in ottica più inclusiva. È necessario un sistema di ridistribuzione più solidale delle risorse, che supporti le società più in difficoltà, magari elargendo più incentivi in base alla popolazione e al blasone storico, per evitare che, ad esempio, squadre come il Catania possano fallire. Il rischio è che il calcio diventi ad uso esclusivo delle squadre ricche del Nord, creando una desolazione devastante che potrebbe portare anche a serie conseguenze sociali. Oltretutto, sarebbe anche in netta antitesi con lo spirito popolare e democratico di questo sport. 

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