Leni Riefenstahl olympia

Leni Riefenstahl, Olympia

Nel 1931 Berlino si aggiudicò l’edizione dei Giochi estivi del 1936, battendo la città di Barcellona su cui gravavano le voci di un’imminente guerra civile. Una scelta che destò comunque forti critiche quando i nazisti salirono al potere. Tant’è che per la prima volta nella storia delle Olimpiadi moderne diversi Paesi minacciarono di boicottare la manifestazione. Per spegnere le polemiche e dimostrare che le accuse di antisemitismo erano infondate, Hitler fece inserire nella rappresentativa tedesca Helene Mayer, una delle più forti schermitrici della storia, di origini ebraiche.

Leni Riefenstahl olympia

Non solo. Hitler voleva che l’evento fosse qualcosa di eccezionale e consegnarlo alla storia. Per questo commissionò la realizzazione di un film ad esso dedicato ad una giovane regista, Leni Riefenstahl. La Riefenstahl aveva già lavorato per i nazisti, quando realizzò Triumph of the Will, un resoconto orribilmente avvincente dei raduni di Norimberga del 1934. Un film così dinamico, grandioso e ambizioso che si è classificato diciannovesimo in un sondaggio del 2014 della rivista Sight & Sound sui migliori documentari del cinema. Ma fu soprattutto un monumentale esempio di propaganda nazista. Il Führer fu così deliziato da questo “puro film storico” che decise di affidarle quello che doveva essere non solo una cronaca delle Olimpiadi di Berlino, ma una meditazione su tutto ciò che i Giochi rappresentavano e su tutto ciò che la Germania poteva essere. La Riefenstahl al tempo era una dei massimi esponenti di quello che nel primo dopoguerra venne definito cinema di montagna, film che facevano da contrasto allo sconvolgimento sociale, economico e politico della Repubblica di Weimar. In questi film la montagna rafforzava l’immaginario di un’Arcadia in cui l’uomo poteva ritrovare se stesso, ottenere il dono dell’intemporalità e “un’innocenza che implicava durezza, dominio e la conquista tra gli individui e le nazioni” (George L. Mosse, Le guerre mondiali – Dalla tragedia al mito dei caduti).  “Bellezza, forza e destino” era il motto della regista ed emerge chiaramente in Olympia, dove splendidi corpi umani vengono ripresi sullo sfondo di una natura altrettanto splendida e imponente.

Leni Riefenstahl olympia
Riefenstahl durante le riprese di Triumph of the Will (Credit: Alamy)

L’opera è divisa in due parti: Olympia – Festa di popoli e Olympia – Festa di bellezza. La prima parte inizia con un mistico revival, omaggio all’antica Grecia, con le rovine avvolte dal fumo e le statue greche che prendono vita e si trasformano in atleti e ballerini nudi – uno dei quali è la stessa Riefenstahl; il film fluttua nel tempo e nello spazio arrivando al momento in cui i tedofori si passano la torcia olimpica fino al braciere di Berlino (la staffetta della torcia è stata inventata proprio per i Giochi del 1936). Poi è un susseguirsi di riprese su tutte le discipline, grazie ad un montaggio ferrato che infrange tutte le regole della dimensione spazio/temporale. Il racconto entusiasta e la musica emozionante di Herbert Windt non si fermano mai. Nell’idillio soleggiato che la Riefensthal crea per lo spettatore, le feste sportive si muovono come un orologio, senza ritardi e delusioni. 

Alfred Hitchcock una volta disse: “Cos’è il dramma se non la vita con le parti noiose tagliate?” E in questi termini che la Riefensthal ha raccontato quelle Olimpiadi. Per farlo, coinvolse una trentina di operatori tra cui Walter Frentz, specialista della macchina da presa a mano e inventore di quella a catapulta per riprendere i corridori dei 100m.

Olympia ha rotto gli schemi dei film olimpici in molti modi. In primo luogo, Riefenstahl ha avuto un supporto attivo dagli organizzatori che nessun altro regista aveva ricevuto. Aveva accesso totale e controllo totale, e un equipaggio e un budget incommensurabilmente grandi.

David Goldblatt

È evidente che non è molto interessata all’elemento competitivo dei Giochi: non c’è suspence sulla sfida. La sua unica preoccupazione è rendere tutte le competizioni cinematografiche. E ci riesce tramite sequenze al rallentatore, carrellate, un numero sorprendente di inquadrature da diverse angolazioni e alcuni primi piani che sono stati filmati in seguito e poi uniti al filmato. Questa estetica così radicale culmina in un ipnotizzante montaggio dei tuffi alla fine di Festa di bellezza. Ciò che inizia come una semplice ripresa della competizione diventa qualcosa di sempre più astratto fino a diventare più simile ad un balletto aereo; la Riefenstahl monta addirittura alcuni tuffi al contrario: i tuffatori emergono dall’acqua per volare in cima al trampolino.

Ma ogni volta che l’ipnosi di questa estetica inizia a fare effetto, le subitanee inquadrature di Hitler riportano lo spettatore alla realtà. Si vede Hitler che dagli spalti applaude quando i tedeschi sfoderano ottime prestazioni, e tamburella nervosamente con le dita sul ginocchio quando a vincere sono le altre nazioni. I detrattori della Riefenstahl affermarono che questi candidi intermezzi erano uno stratagemma concertato per umanizzare un brutale dittatore. Ma è un’accusa che si scontra con tutte le inquadrature dedicate ai successi degli atleti neri, primo fra tutti Jesse Owens. Per quanto Olympia glorifichi la Germania, pare essere altrettanto facilmente una celebrazione dell’America multirazziale. Più volte la Riefenstahl si concentra sulle vittorie degli atleti neri americani. E in due diverse occasioni, sovrappone una bandiera a stella e strisce a un’immagine di un vincitore americano bello e sorridente. Voleva impressionare Hitler, ma aveva anche gli occhi puntati su una carriera a Hollywood. 

Non è un caso che appena terminato il documentario volò prima a New York e poi ad Hollywood per promuoverlo. Ma il tempismo non fu dei migliori. Nel novembre del 1938 quando era appena atterrata sul suolo americano, la notizia dei pogrom della Notte dei Cristalli aveva già raggiunto gli Stati Uniti: più di 1.000 sinagoghe in tutto il Reich erano state bruciate in una notte, migliaia di attività commerciali ebraiche erano state vandalizzate e 30.000 ebrei erano stati deportati nei campi di concentramento. Nessun capo degli Studios di Hollywood volle incontrarla, ad eccezione di Walt Disney, il quale, da quanto apprendiamo dall’autobiografia della regista, voleva vedere tutte e due le parti di Olympia ma, dopo averci pensato bene, desistette pensando che i proiezionisti, molto sindacalizzati, avrebbero fatto uscire la notizia e questa avrebbe ottenuto l’effetto di portare al boicottaggio dei suoi film. Per gli americani Leni Riefenstahl era pur sempre una nazista: ecco perché l’inventore del gossip, Walter Winchell, scrisse che “era carina come una svastica“.

Tornò in Germania, dove lavorò a un dramma epico, Lowlands, utilizzando comparse zingare che, come emerso in una causa legale del 2002, furono inviate ad Auschwitz una volta terminate le riprese. Dopo la guerra fu vittima del processo di denazificazione e cadde in un oblio talmente forte da impedire di riconoscerle le sue grandi doti e la sua straordinaria visione che in Olympia trovano massima espressione. Un documentario che non omaggiò semplicemente l’evento sportivo più importante e celebrato al mondo, ma quell’approprazione dell’eternità che la natura e la bellezza scultorea degli atleti rappresentavano. Un’eternità che si contrapponeva all’irrequieta vita delle città e che fu uno degli elementi salienti di quel Mito dell’Esperienza della Guerra che facilitò l’ascesa al potere dei nazisti. 

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