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Scontri in Brasile, come gli ultras sono diventati i peggiori nemici di Bolsonaro

Neanche il tempo di smaltire i festeggiamenti che il 2023 si è presentato con un biglietto da visita in piena continuità con i suoi predecessori, caratterizzato dall’assalto al Parlamento brasiliano, un colpo di coda da parte dei sostenitori dell’ex presidente Bolsonaro che dal giorno del verdetto delle elezioni presidenziali tentano di destabilizzare il nuovo governo; un’azione che rievoca – neanche tanto da lontano – quanto avvenuto proprio due anni prima a Capitol Hill da parte dei seguaci di Trump, uno dei tanti punti in comune tra le vicende di Stati Uniti e Brasile. Probabilmente i due stati-chiave di quest’emisfero in cui, attraverso la sommatoria di motivi “razziali”, “economici” e “geopolitici”, si stanno ridefinendo nuovi equilibri che, con ogni probabilità, avranno ricadute anche a livello planetario. A voler analizzare con attenzione e dovizia di particolari le concitate vicende che coinvolgono e attanagliano il più grande Paese del subcontinente latino-americano, emerge un dato particolarmente sorprendente, vale a dire il coinvolgimento – diretto o indiretto – del mondo del calcio e di tutte le sue diramazioni in questa convulsa fase politica. 

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Non ci limitiamo soltanto agli endorsement più o meno velati che tanti atleti hanno espresso per Lula o (più spesso) per Bolsonaro. In fin dei conti il Brasile viene ritenuto la patria morale del calcio. Anzi, spesso e volentieri “o futebol” è assurto al ruolo di caleidoscopio d’eccezione attraverso cui comprendere le dinamiche sociali e anche le tensioni razziali ed economiche del Paese amazzonico. Le commistioni tra calciatori, società e politica sono state probabilmente molto più numerose che altrove: dal Maracanazo, che sarebbe stato provocato dalla forte emotività degli elementi neri della formazione (il portiere Barbosa su tutti, costretto a subire un ostracismo ultracinquantennale), al riscatto della negritudine con Pelè, da “Manè” Garrincha, il sorriso dei poveri, all’investimento politico della dittatura militare sulla vittoria dei Mondiali del 1970, passando poi per la celebre Democracia Corinthiana del Corinthians di Socrates, e altre storie meno conosciute, come quella del bomber Reinaldo e le sue esultanze provocatorie con il pugno chiuso, e l’allontanamento dalla panchina della Seleção del comunista Saldana voluto da Medici in persona.

A ben vedere, anche la costruzione del Maracanà, il simbolo della forza del rapporto privilegiato tra il Brasile e il calcio veniva incontro a un progetto sociale teso a rendere il calcio il più inclusivo possibile, ospitando anche poveri e diseredati, e azzerando (o per lo meno provandoci) tutti i tipi di differenze, almeno per novanta minuti a settimana. E proprio la realizzazione di quest’impianto, in occasione dei Mondiali casalinghi del 1950, divenne uno scontro politico tra O partidao (il partito comunista brasiliano) e il partito liberale. 

Ecco, spostando per un attimo il focus di questa intensa footbalizzazione della politica dal rettangolo di gioco a ciò che lo circonda – vale a dire le gradinate – possiamo scorgere il primo grande elemento di caratterizzazione di questo ciclo di mobilitazioni brasiliane: un coinvolgimento senza precedenti delle torcidas, grossomodo omologhe ai gruppi ultras nostrani, assolute protagoniste nella vita politica brasiliana. Come attestato puntualmente in una serie di articoli di Diogo Magri, uno dei più attenti osservatori del fenomeno, le torcidas si sono trasformate in attori sociali riconosciuti ormai da tutte le componenti della società brasiliana, grazie alle immagini provenienti dai vari media che li hanno immortalati puntualmente in ogni manifestazione contro Bolsonaro e, ovviamente anche nei molteplici scontri – con polizia o frange di destra – che hanno caratterizzato questo ciclo politico ancora lontano dall’esaurirsi. 

Conviene, però, fare un passo indietro per analizzare il processo molto sfaccettato e irregolare di politicizzazione del tifo organizzato brasiliano che, a differenza della percezione predominante in Italia, è il più antico del mondo.

Le prime forme di sostegno organizzato nel Vecchio continente, che risalgono al 1950, furono importate da alcuni marinai croati di ritorno proprio dal Brasile, impressionati dai canti e dai balli dei tifosi durante le partite (da qui nacque la Torcida dell’Hajduk Spalato). Una coreografia che assumeva i crismi di un rituale codificato che coinvolgeva lo stadio per intero e che, almeno per il primo periodo, viveva una sorta di dualismo: alle torcidas, allora prettamente pauliste, si contrapponevano le charangas di matrice carioca, che di fatto erano delle vere e proprie bande musicali che pian piano si estinsero quasi “naturalmente”.

Oltre che per un sostegno rumoroso e colorato, i primi gruppi organizzati si distinguevano per una spiccata partecipazione femminile e per aver condotto battaglie pioneristiche contro le discriminazioni; non è un caso che sia proprio brasiliano il primo gruppo dichiaratamente composto solo da omosessuali (la Coligay del Gremio di Porto Alegre) attivo tra il 1977 e il 1983. Durante gli anni della dittatura militare le gradinate brasiliane furono un vettore di messaggi e movimenti che variavano dall’amnistia per i prigionieri politici (la Flanistia del Flamengo attiva dal 1979) al fiancheggiamento esplicito degli oppositori, come, ad esempio, il movimento a favore delle elezioni libere Direitas-ja, che proprio in quegli anni faceva il paio con quanto avveniva invece tra i calciatori, suggestionati dall’esperimento della Democracia Corinthiana.

A partire, però, dal 1985, con la caduta della dittatura i gruppi ultras ebbero un’involuzione, trincerandosi dietro un machismo che per almeno una ventina d’anni è stato uno dei tratti predominanti delle gradinate brasiliane, e che ebbe come effetto collaterale una radicalizzazione della violenza tra i vari gruppi che raggiunse l’apogeo nella famosa Battaglia campale di Pacaembu del 1995, quando le torcidas di Sao Paulo e Palmeiras si sfidarono durante una partita delle squadre giovanili lasciando sul terreno degli scontri un morto e oltre un centinaio di feriti.  La graduale spoliticizzazione si è protratta, pur con qualche eccezione, fino allo scorso decennio: del testamento ideologico di gruppi, come i Gavioes da Fiel che giocarono un ruolo importante nella lotta alla dittatura, erano rimasti giusto alcuni tratti dell’estetica rivoluzionaria. Basti pensare, tanto per fare un esempio che poiché la Mafia Azul, il gruppo principale al seguito del Cruzeiro era solita sventolare bandieroni con l’effige di Che Guevara, i loro acerrimi rivali della Galocura dell’Atletico Mineiro per un periodo usavano una bandiera raffigurante il volto di Renè Barrientos, il dittatore boliviano mandante dell’esecuzione del Che.

A partire, però, dal 1985, con la caduta della dittatura i gruppi ultras ebbero un’involuzione, trincerandosi dietro un machismo che per almeno una ventina d’anni è stato uno dei tratti predominanti delle gradinate brasiliane.

La situazione mutò drasticamente nel 2013 con l’inizio del ciclo di proteste che aveva nel mirino l’ex presidentessa Dilma Rousseff, la politica dei grandi eventi (dal 2013 al 2019 avrebbe portato nel Paese la Confederation Cup, i Mondiali di Calcio, le Olimpiadi e la Copa America). Dietro le espressione come rigenerazione urbana, modernizzazione e ristrutturazione, si celavano progetti per la distruzione di intere favelas e la progressiva gentrificazione (che affondava le radici nella riforma del Campionato brasiliano del 2003) attraverso la costruzione di nuovi impianti sempre più esclusivi. Inoltre, l’innalzamento del prezzo dei biglietti dello stadio e l’ulteriore ridefinizione degli orari delle partite, per venire incontro alle esigenze televisive, si sommavano alle inchieste sulla corruzione dei vertici del mondo del calcio brasiliano e alla nuova legislazione anti-torcidas permisero che due universi concettuali paralleli tornassero a dialogare dopo moltissimo tempo. 

Tuttavia, almeno in quella fase embrionale le proteste avevano matrici differenti che ben presto si andarono a identificare su base cromatica. Da un lato gli esponenti della destra, i quali su suggerimento del deputato Aecio Neves manifestavano con la maglietta della nazionale in segno di patriottismo (fenomeno che si è protratto fino ad oggi, come certifica un imbarazzato tweet da parte della Federcalcio brasiliana costretta ribadire che la divisa della nazionale sia un simbolo apolitico di unione e non di divisione), dall’altro i movimenti sociali, che manifestavano indossando magliette di colore rosso. Si creava così una situazione surreale: gli elementi di destra, vestiti di giallo, protestavano dentro gli stadi, mentre fuori (anche per via dei prezzi esorbitanti dei biglietti), protestavano i manifestanti di sinistra che volevano difendere Aldeia Maracanà, un villaggio occupato da diversi discendenti delle tribù amazzoniche. Quindi, fu proprio nel 2013 che, da entrambi i lati della barricata, furono gettate le basi per gli assetti che hanno condizionato il Brasile nel decennio successivo fino ai giorni nostri. 

L’incontro pressoché quotidiano con i militanti sociali, le pratiche antagoniste e la messa in discussione dello status-quo attivò una sorta di coscienza di classe “prepolitica” nelle torcidas, tant’è che tutte le principali tifoserie del Paese videro la nascita di un apposito collettivo antifascista. Come attesta puntualmente lo storico Victor de Leonardo Figols nella sua pubblicazione, Tifosi antifascisti in Brasile: il calcio come trincea politica: “Dopo le manifestazioni del 2013 il numero dei collettivi antifascisti raddoppiò velocemente, passando dai 30 preesistenti a oltre 60 nuclei“.

Probabilmente un ruolo decisivo fu giocato da una piccola, ma irriducibile torcida, una tifoseria sui generis: gli Ultras Resistencia Coral del Ferroviario Atletico Clube, una squadra di Fortaleza che milita nella categoria corrispondente alla nostra serie C, la quale, non avendo mai fatto mistero della loro estrazione prettamente proletaria, ha avuto il merito di fungere da apripista nel coalizzare le tifoserie del riottoso nordest del Paese. Dietro le parole d’ordine “Nem guerra entra torcidas nem paz entra classess” (Né guerra tra le torcidas, né pace tra le classi), il tifo organizzato riusciva a connotarsi sempre di più come soggetto collettivo pensante, capace di dialogare con i rispettivi club sia su temi più disparati (dal carobiglietti all’incentivazione delle squadre femminili) sia su quelli di ben più stringente attualità, diventando referente politico e sociale dei quartieri più svantaggiati delle metropoli brasiliane.

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Ma è indubbio che la spinta maggiore alla realizzazione di questa unione senza precedenti venne direttamente dall’elezione di Jair Messias Bolsonaro, il quale sembrava ricondurre il Brasile nell’ovile yankee dopo la stagione dei BRICS, e soprattutto non faceva mistero di una visione quasi eugenetica della società in cui vi era un profondo disprezzo per tutte le forze progressiste, per le donne e per tutti i ceti marginali tra cui gli ultras, dipinti come “vagabondi“, “gente deviata” e “negri“. Una delle prime mosse della strategia elettorale di Bolsonaro fu quella di legarsi a tanti uomini di calcio e di sport brasiliani come Neymar, Ronaldinho e Robinho. Ci sono pochi dubbi ormai che a spingere le torcidas a rompere gli indugi sia stata la presenza tra gli uomini di Bolsonaro del famigerato Major Olimpo, uomo forte del governo, senatore di estrema destra, massone ed ex agente della polizia militare, fermo sostenitore dell’utilizzo della forza militare nelle favelas e nemico giurato delle torcidas, essendo stato autore di un disegno di legge che ne prevedeva l’eliminazione.

Ma è indubbio che la spinta maggiore alla realizzazione di questa unione senza precedenti venne direttamente dall’elezione di Jair Messias Bolsonaro, il quale sembrava ricondurre il Brasile nell’ovile yankee dopo la stagione dei BRICS, e soprattutto non faceva mistero di una visione quasi eugenetica della società in cui vi era un profondo disprezzo per tutte le forze progressiste, per le donne e per tutti i ceti marginali tra cui gli ultras, dipinti come “vagabondi“, “gente deviata” e “negri“.

Dapprima, dai suoi profili social Rodrigo Gonzalez Tapia Digao, il presidente in carica dei Gavioes da Fiel, il gruppo più numeroso di tutto il Paese, pubblicò un comunicato in cui evidenziava come le origini del club fossero inconciliabili con il messaggio di Bolsonaro e, pertanto, invitava tutti i fan del Presidente ad abbandonare il gruppo, a cui ben presto fece eco un comunicato analogo della torcida Jovem del Santos. Ben sessantanove torcidas stilarono un documento condiviso di supporto a Fernando Haddad, ex sindaco di Sao Paulo e avversario di Bolsonaro, definendolo come ultimo argine di difesa della democrazia e lanciando la campagna per le strade e sui social #DictaturaNuncaMais, che vedevano delle preoccupanti conferme della svolta autocratica del governo anche sugli spalti. Frequenti erano i sequestri da parte delle forze dell’ordine di adesivi, bandiere e striscioni considerati scomodi (come nel caso delle effigi del volto di Marielle Franco, la consigliera comunale di Rio de Janeiro, anticapitalista, simbolo del movimento LGBTQ+ e dei diritti degli abitanti delle favelas, uccisa dai sostenitori di Bolsonaro).

Jair Bolsonaro | Foto: Antonio Cruz/Agência Brasil

Durante la pandemia, nonostante le disposizioni anti-assembramenti da parte del governo, le persone scendevano ugualmente in piazza a manifestare con diversi settori della destra che, contando sulla compiacenza della polizia federale, coltivavano tentazioni golpiste per sostenere il Presidente. E fu proprio in questi momenti difficili che emerse il nuovo protagonismo delle torcidas che si sostituirono definitivamente alle classiche avanguardie e divennero la punta di diamante del movimento di autodifesa delle classi sociali più basse. Se da un lato è indubbio che dal punto di vista dell’elaborazione concettuale i movimenti persero qualcosa, dall’altro quel qualcosa veniva ampiamente recuperato nelle pratiche di piazza: si deve infatti agli ultras una delle pratiche che ha scompaginato i sostenitori del governo, vale a dire presentarsi in netto anticipo nelle piazze in cui questi ultimi avevano organizzato dei raduni e occuparle preventivamente, una sorta di rivisitazione del Take the end di matrice britannica e hooliganistica. Durante gli scontri che ne derivavano, la polizia dimostrava un’evidente disparità di trattamento caricando gli antifascisti e difendendo i bolsonaristi.

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I numeri di piazza delle forze avverse all’ormai ex presidente brasiliano, però, crescevano di manifestazione in manifestazione, vedendo anche una cospicua e agguerrita presenza di donne, che addirittura andavano a prendersi la testa di uno dei cortei più importanti, quello del 24 maggio del 2020, conclusosi con duri scontri e diversi arresti. La manifestazione cristallizzava una situazione che vedeva negli ultras brasiliani la principale forza antigovernativa di un Paese (che pure aveva ben trentatré partiti riconducibili alla sinistra), che ad ogni sussulto o fascinazione golpista da parte dei supporters di Bolsonaro rispondeva prontamente colpo su colpo. 

Anche in questa tormentata campagna elettorale che ha visto il ritorno alla presidenza da parte di Inacio Lula dopo la sua scarcerazione, gli scontri non sono mancati. Sin dal giorno successivo al verdetto elettorale è cominciata una politica di scioperi e blocchi stradali – soprattutto in quegli stati in cui Bolsonaro era stato il più votato – a cui gli ultras hanno risposto prontamente. Sono addirittura capitati dei casi in cui i blocchi vennero forzati direttamente da interi torpedoni carichi di ultras in trasferta (come nel caso della Galocura dell’Atletico Mineiro in trasferta a Sao Paulo, dei Gavioes da Fiel del Corinthians diretti a Rio de Janeiro e dell’Impero Alviverde del Curitiba diretti a Caxias do Sul), ripristinando così la normalità nelle strade.

Adesso andare ai cortei con una t-shirt o una felpa appartenente a qualche torcida è motivo di vanto e di ammirazione, e non è affatto raro leggere sui vari network o portali che seguono da vicino l’evolversi della situazione commenti del calibro: “Il lavoro che dovrebbe fare la polizia, lo fanno molto meglio i tifosi organizzati. È grazie a loro se possiamo manifestare tranquillamente“, “Tra vent’anni i nostri figli studieranno che la democrazia in Brasile è stata difesa dai tifosi delle squadre di calcio!

Finanche nei giorni della stesura di questo articolo le notizie continuano ad arrivare senza soluzione di continuità da ogni parte del Paese: da Coritiba a Fortaleza, da Rio de Janeiro a Porto Alegre, da Sao Paulo a Belo Horizonte si susseguono notizie di scontri delle torcidas contro polizia e sostenitori di Bolsonaro. Adesso andare ai cortei con una t-shirt o una felpa appartenente a qualche torcida è motivo di vanto e di ammirazione, e non è affatto raro leggere sui vari network o portali che seguono da vicino l’evolversi della situazione commenti del calibro: “Il lavoro che dovrebbe fare la polizia, lo fanno molto meglio i tifosi organizzati. È grazie a loro se possiamo manifestare tranquillamente“, “Tra vent’anni i nostri figli studieranno che la democrazia in Brasile è stata difesa dai tifosi delle squadre di calcio!” Che sia vero o no, soltanto il tempo ce lo potrà dire, ma quello che è certo è che soltanto in un Paese come il Brasile, uno scontro cruciale per i futuri assetti geopolitici globali poteva vedere una tale sovrarappresentazione del calcio. È significativo constatare una sostanziale differenza di preferenze tra gli attuali calciatori, per la maggior parte fan di Bolsonaro e interpreti di un calcio mercificato, e quelli del passato che insieme al pubblico delle gradinate resta fedele al legame indissolubile tra calcio e popolo, tra poesia e miseria.

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