basket lituania
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La religione della Lituania

Durante il XX secolo la Lituania fu occupata da potenze straniere per 68 anni, 46 dei quali sotto il regime comunista russo in cui almeno 130.000 lituani, tra intellettuali, dissidenti, potenziali oppositori del regime, vennero deportati in Unione Sovietica. Circa 28.000 persone morirono nel corso di quei trasferimenti. E sebbene, dopo la morte di Stalin, i prigionieri furono pian piano rilasciati, non a tutti fu permesso di tornare in patria, e solo 60.000 poterono far ritorno in Lituania. I gruppi partigiani miško broliai (“fratelli del bosco”) continuarono a contrastare i piani sovietici con azioni di guerriglia fino alla seconda metà degli anni Cinquanta, nella speranza di ricevere un aiuto da parte del mondo libero, che non ebbero mai. L’ultimo partigiano venne fucilato dal KGB nel 1965. Deportazioni di massa, annullamento di ogni forma di resistenza e cancellazione della propria cultura resero la Lituania una colonia senz’anima dell’URSS. Eppure sotto la cenere qualcosa si muoveva. Nei bar e nei pochi circoli ancora aperti, quando persino la lingua ufficiale del Paese era diventato il russo, la gente si chiedeva: “Chi sostiene ancora la nostra lituanità?” E la risposta combaciava sempre con tre nomi: Eimuntas Nekrošius, il genio del Teatro della gioventù di Vilnius, Jonas Vaitkus del Teatro drammatico, e Arvydas Sabonis, il fuoriclasse del basket. Trai i ricordi dei lituani fermentava ancora la consapevolezza che un tempo la Lituania vinse per ben 2 volte (nel 1937 e nel 1939) i campionati europei di basket, e che lo Žalgiris Kaunas era il fiore all’occhiello del basket sovietico, capace di battere costantemente il Cska di Mosca. Durante l’occupazione le sfide tra la squadra moscovita e l’armata di Sabonis erano seguite da tutti i lituani, inclusi i vecchietti per i quali fino a poco prima la pallacanestro era sinonimo di superficialità e frivolezza; un’intera popolazione incollata al televisore come se stesse assistendo al destino della propria nazione. E dopo ogni vittoria tutti ripetevano come un mantra: “Abbiamo sconfitto i russi“.

Arvydas Sabonis
Arvydas Sabonis circondato da giovani fan

Rimvydas Valatka, giornalista nato in Siberia e figlio di contadini lituani deportati, ha fatto un paragone tra la pallacanestro e la guerra partigiana. Pare che i lituani, fisicamente alti e forti, abbiamo imparato dalla resistenza partigiana quello spirito di squadra che ha caratterizzato il loro gioco: nessun leader, ma ogni uomo o donna deve occuparsi prima della difesa e poi cercare il compagno nella posizione migliore. Una strategia di guerra che ha ritrovato gloria nello sport.

Dall’occupazione stanilista in avanti, il basket è stato per i lituani un rimedio terapeutico contro il complesso di inferiorità. Schiavi di una dittatura kolchoziana, i lituani vedevano nella pallacanestro il cordone ombelicale con la libertà. C’è da dire che con il basket non fu subito amore. All’inizio era una sport seguito principalmente a Kaunas da chi era entrato in contatto con l’esuberante Steponas Darius, capitano dell’aviazione militare lituana ed eroe nazionale, il quale nel 1922 arrivò dagli Stati Uniti portando le regole di questo sport. E fino al 1935 la pallacanestro rimase uno sport di nicchia. La svolta avvenne nel 1937 con i campionati europei in Lettonia. La nazionale lituana partecipò senza che nessuno in Patria ci fece caso. Era formata quasi esclusivamente da giocatori lituano-americani che mixarono alla forza fisica, tipicamente baltica, il talento americano, grazie ai quali vinsero il torneo. Così in Lituania scoppiò la basket-mania. Nel viaggio di ritorno in ogni stazione venivano accolti da folle di studenti, funzionari e contadini in estasi. Per la prima volta la Lituania si riconosceva in qualcosa che non fosse contadino. Come scrive Valatka: “Riusciamo in qualcos’altro che non sia l’arte di ingrassare i maiali“. Nei quattro anni successivi Kaunas divenne la capitale del basket lituano. Venne costruito il palazzetto dello sport in cui nei campionati europei successivi la Lituania si riconfermò campione, vincendo tutte e sette le partite del torneo. Non è un azzardo dire che la costruzione di quell’arena sia paragonabile alla costruzione delle cattedrali gotiche del Basso Medioevo. Si lavorò anche di notte e furono mobilitati tutti i fabbri ferrai della città: in totale vi lavorarono 300 persone. Poi scoppiò la guerra che inghiottì il Paese e tutto ciò ad esso connesso.

Nulla rimase della gloriosa squadra; chi poté scappò negli Stati Uniti. La storia di Mykolas Ruzgys, miglior giocatore dell’Europeo del 1939, è particolarmente struggente. Avendo la cittadinanza americana salì sull’ultimo treno per sfuggire all’occupazione, ma la moglie incinta decise all’ultimo di restare. Non la rivide mai più e non conobbe mai sua figlia. Nel dopoguerra vi fu una selezione lituana di basket formata da profughi che tentò di partecipare al campionato europeo del 1946, ma trovò l’opposizione della Fiba, dato che un tale Stato non esisteva. La cortina di ferro aveva diviso anche la Lituania: da un lato c’era la nazionale di basket di un popolo sottomesso e dall’altro quella della diaspora. Si sfidarono solo una volta, nel 1968, quando una selezione di cestisti provenienti da tutto il mondo andò in visita nel Paese avito. Al ritorno dalla tournée i giocatori lituani, cittadini oramai di altri Paesi, vennero criticati da tutte le organizzazioni lituane all’estero. Alcuni persino dai propri genitori, come testimonia il racconto di Raimundas Mieželis, uno degli organizzatori della trasferta:

Dopo quella trasferta mio padre, generale lituano, non volle più parlarmi; mi accusava di collaborare con gli occupanti.

Durante la diaspora i lituani espatriati si rifugiarono nel basket. Non c’era nazionale o campionato che non vedesse protagonisti dei giocatori lituani: dall’NBA alle nazionali australiana e brasiliana tutti avevano un leader lituano. Solo per fare un esempio, uno dei miglior cestisti di tutti i tempi del Real Madrid è stato Joe Arlauckas. Come tutti i popoli costretti all’esilio, i lituani si arroccarono su tutto ciò che li faceva sentire ancora un popolo unico. Così si aggrapparono al basket con un senso ieratico, nello stesso modo in cui gli ebrei si identificano nei loro riti e tradizioni. In questo lituani ed ebrei sono molto simili: nella difficoltà si rifugiano nella religione. Ma la religione dei lituani, che insieme agli estoni sono stati gli ultimi pagani d’Europa, è legata alla palla a spicchi. 

L’indipendenza, raggiunta dopo il disfacimento dell’URSS, portò un decentramento del basket: il nuovo campionato locale non aveva solo Kaunas e Vilnius, ma si espanse nelle province. Il merito fu soprattutto di Šarūnas Marčiulionis, il primo giocatore lituano della Nba, il quale all’alba della liberazione dal giogo sovietico si sforzò di creare un nuovo sistema che includesse anche piccole cittadine, come Šilutė e Plungė. Così nel 1993 prese forma la Lietuvos krepšinio lyga (LKL), la lega nazionale di pallacanestro. Imprenditori spregiudicati, arricchitisi nel caos post URSS, che importavano metallo dalla Russia per rivenderlo nell’Europa occidentale, divennero gli sponsor dei club della LKL. Fu un’epoca di forte sviluppo per il basket locale, ma non durò a lungo. Ben presto uno ad uno questi oligarchi fallirono e chi non fallì venne ammazzato, causando la scomparsa di diversi club. Kaunas però rimase e rimane il cuore del basket lituano: è Sabonis, l’Eurolega, il palazzetto più grande del Paese, e soprattutto è tradizione.

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Quanto nel periodo tra le due guerre la Polonia occupò Vilnius, Kaunas divenne la capitale provvisoria. Così fino all’indipendenza si ebbero due capitali: Vilnius quella politica e culturale, e Kaunas quella industriale e sportiva. Ma per un Paese così piccolo due capitali erano troppe; Kaunas perse pian piano potere e importanza. La sua abitazione scese da 420mila a 290mila abitanti. Tutto converse verso Vilnius, esasperando le irritazioni dei kaunensi e il campanilismo che trova nel basket il miglior esempio. Per loro i vilnensi sono “portoghesi”, a sottolineare come, se Kaunas sia una città omogenea dal punto di vista etnico, Vilnius, al contrario, ha solo il 60% di lituani. Per questo con ironia a Kaunas si affrettano sempre a ricordare che lì, in quell’altra città, non si riescono nemmeno a capire, cose se fossero portoghesi. 

Quando nel 1989 Šarūnas Marčiulionis venne ingaggiato dai Golden State Warriors dichiarò di essere lituano e non russo, nonostante molti non capissero la differenza. Non era un atto politico, ma una dichiarazione esistenziale. Non avendo un epos nazionale, i lituani si rifanno al basket. Credono nel basket, come lo si fa con una religione: la consapevolezza che qualunque cosa succeda non perderanno la propria anima, la loro lituanità. Nel 1989, pochi giorni prima della caduta del Muro, Arvydas Sabonis, allora tra le file del Forum Valladolid, prima della semifinale della Coppa Korać a Roma, ebbe udienza dal papa. L’allora allenatore della squadra spagnola, Javier Casero, disse: “Quel giorno in Vaticano avvenne l’incontro tra due papi: il santo padre Giovanni Paolo II e il papa della pallacanestro europea, Arvydas Sabonis.” È un’immagine che spiega bene come il basket abbia forgiato l’identità nazionale lituana. Quando deve scegliere uno sport, un ragazzino su due sceglie la pallacanestro, perché come scrive Valatka: “Senza il basket non siamo veramente noi“.

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