Céline Nizan

Conviene arrendersi. Manifesto per gli inadatti

Forse sarà la normalità, per molti già lo è, ma è difficile potersi abituare all’omologazione dei gusti, degli atteggiamenti. Oggigiorno facciamo tutti le stesse cose e negli stessi posti. Puoi trovare un newyorkese bere un caffè dentro Starbucks come lo puoi incontrare a Timbuktu a bere lo stesso caffè della stessa catena. Forse questo è un legame che ci permette di essere società oltre i confini nazionali, di stare insieme nello stesso modo a migliaia di chilometri, di essere in contatto anche senza conoscerci. Ma, poiché, come diceva Godard, i rapporti sociali sono sempre ambigui e il pensiero divide così come unisce, e le parole uniscono per quello che esprimono e separano per quello che omettono, la normalità dell’omologazione diventa esaltazione del disagio: ci sforziamo di essere simili, ma siamo diversi. Ci hanno sempre detto che le differenze ci rendono unici, ma chi lo diceva era lo stesso che non mancava di mescolarsi alla massa della gente in strada, a lavoro, nei ristoranti e nei cinema. È vero, la differenza ci rende unici, ma non siamo in grado di affrontare il peso di questa unicità, che ha il sapore del fallimento. E poiché ogni fallimento ci confina nella solitudine, poiché non possiamo sottrarci all’obiettività che ci schiaccia né alla soggettività che ci esilia, smettiamo di lottare. I più illusi, gli ultimi ad arrendersi, scappano. Credono che viaggiare possa salvarli. Poveri ingenui! ll viaggio che ci è dato è interamente immaginario, scriveva Céline. E lui era uno che se ne intendeva. Ha vissuto tutta la vita nella solitudine dell’emarginazione, ai confini di un mondo globalizzato che chiama a sé tutte le città e i suoi abitanti, tutti noi senza nemmeno che ce ne accorgiamo.

Paul Nizan
Paul Nizan

Ce l’ha raccontato in Voyage au bout de la nuit: il binomio disagio-viaggio di tutti gli inadatti finisce sempre con una nuova e più grande delusione: non si può sfuggire. Del resto, ci aveva provato qualche anno prima anche Paul Nizan. Tutto il valore del viaggio è racchiuso nel suo ultimo giorno, scriveva all’alba degli anni Trenta del secolo scorso. La sua fuga nell’esotica Aden ha solo confermato che non importa quanto lontano tu possa scappare, non potrai mai sfuggire da te stesso. Specie se ovunque tu vada trovi sempre gli stessi costumi e gli stessi gusti.

Due romanzi, usciti a distanza di un anno l’uno dall’altro (Aden Arabia nel 1931 e Viaggio al termine della notte nel 1932), che sono diventati due manifesti del disagio. Per tutti coloro che si sentono inadatti, per tutti coloro consapevoli che il futuro è una presenza ossessiva, più presente del presente, per tutti coloro che ancora cercano a tentoni un barlume di tranquillità, e per tutti quelli che, al contrario, si sono vergognati e hanno smesso di cercarlo, questi due romanzi sono un aiuto. Non siete soli. Loro lo hanno vissuto prima di voi e ne hanno patito le conseguenze: uno è morto a 35 anni in guerra e l’altro, vecchio e dimenticato, in esilio. Convinti non di poter cambiare la forza entropica del sistema, ma quantomeno di conoscerne e convincersi della sua ineluttabilità, ci hanno lasciato due testimonianze. Uno ha viaggiato tra l’Africa e gli Stati Uniti per ritornare poi, spinto dalla sua querencia, alla terra natia, e l’altro nell’innocenza della gioventù è scappato ad Aden, ai confini del deserto e del mare.

Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita. È dura imparare la propria parte nel mondo.  

Paul Nizan

Cerchiamo un ruolo che ci possa appartenere, ma se la nostra soggettività ci spinge verso l’incomprensione e la nostra oggettività ci guida nella ricerca di un’approvazione dobbiamo avere la fame di conoscere: noi, gli altri, il mondo e la sua storia. Scoprire e conoscere, interrogarsi e provare a cercare delle risposte, consapevoli che i dubbi aumenteranno. E anche allora, nella desolante miseria del sapere che l’unica immutabile strada che ci sia data rimane quella dell’insoddisfazione, anche allora bisognerà a testa bassa continuare ad andare avanti. 

Era nel 1926, in un periodo di forte crisi interiore al limite della depressione, quando Nizan abbandonava gli studi all’École Normale e si trasferiva ad Aden per lavorare come precettore privato del figlio dell’uomo d’affari Antonin Besse. L’esperienza fu traumatica: cercava un posto per allontanarsi dalla caotica e pressante Francia, ma si ritrovò nella stessa identica ridda. Aden era un’immagine assai ristretta di nostra madre Europa: era un concentrato di Europa. Scriverà poi. Si ritrovò immerso nelle stesse logiche che lo avevano spinto alla fuga: la pregnante ossessione della ricchezza, il dominio delle élite, la ripugnante routine e l’impossibilità di sentirsi realizzato.

Louis-Ferdinand Céline
Louis-Ferdinand Céline

Il levante riproduce e commenta il ponente. Passato un anno, Nizan ritornò a Parigi interrogandosi sull’utilità di quella fuga: “Ma avevo proprio bisogno di andare a dissotterrare nei deserti tropicali delle verità tanto comuni e cercare a Aden i segreti di Parigi?” Una domanda che non avrà mai risposta. A cui si aggiungono le amare, crudeli considerazioni del disadattato più noto della storia. La miglior cosa che puoi fare quando sei a ‘sto mondo, è di uscirne. Matto o no, paura o no. Céline è cinico, è un nubivago, ma è il suo modo di opporsi ad un mondo che rifiuta i diversi. Lui reagisce andando nel ventre del mondo, scava nel pattume, si muove in direzione ostinata e contraria alla salita del branco, si oppone alle élite, alle aristocrazie del tempo. Tutto questo per scoprire che si è soli. Ferdinand Bardamu, l’alter ego letterario di Céline, è un errante, eteroclito, erratico, irrequieto, sconfitto dal mondo. Non ha nulla se non la sua cruda ironia, terribile lama che usa a ripetizione fino a stancarsi. Bardamu, abituato all’insoddisfazione, passa da un luogo all’altro, da un viso all’altro, con rassegnazione, a passo lento: conosce già la fine. Come amava dire l’autore: la morte mi abita e mi fa ridere. 

Se Aden Arabia è un diario di viaggio, intimo e privato, Voyage è una confessione atroce, sbrodolata con rabbia. Se Nizan mantiene una decorosa compostezza, Céline non si trattiene: sa che non c’è alternativa e odia il mondo per questo. 

È forse questo che si cerca nella vita, nient’altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi, prima di morire.

Louis-Ferdinand Céline

Due personaggi distanti e avversari (pregiudizi letterari e un’irriducibile contrapposizione ideologica sono alla base del loro scontro). Due forme dello stesso male. Due modi simili, seppur estranei, di capire e affrontare la distanza tra noi e gli altri. Perché di questo si tratta. Heidegger scriveva: “Ognuno è gli altri, nessuno è se stesso“. Gli altri sono il nostro metro di paragone; l’inadeguatezza nasce dall’impossibilità di incastrarsi nel giochino della società. E per quanto possiamo volerlo, per quanto speriamo di ottenerlo, se non si è perfettamente conformati al sistema, questo ti respinge. La minoranza silente che osserva e non parla rimane lì con occhio esterno, valuta le distanze. 

Gli nasconde tutto la vita agli uomini. Nel rumore che fanno loro stessi non sentono niente. Se ne fottono. E più la città è grande e più è alta e più se ne fottono. Ve lo dico io. Ho provato. Val mica la pena.

Louis-Ferdinand Céline

E consapevoli di questo, a noi non resta che la miseranda consolazione di aver avuto degli apripista, di vedere dei sentieri già battuti: non brancoliamo più nel buio, anche se, come per tutti coloro che ci hanno preceduti, non possiamo far altro che fuggire, consapevoli che non troveremo mai l’Ultima Thule.

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