Flushing Meadows
Flushing Meadows

Flushing meadows: la valle di cenere

Lo US OPEN 2021 sta scaldando il motore in questi giorni, pronto per glorificare Novak Djokovic quale secondo professionista a compiere il Calendar Grande Slam, la vittoria nello stesso anno solare di tutte le gare dello Slam, e primo tennista maschio a sfondare il vertiginoso tetto dei 20 slam vinti in carriera. Il percorso non sarà così facile come nel recente Wimbledon, ma non molto difficile vista la superiorità psicologica ed emotiva dell’atleta serbo rispetto alla giovane concorrenza. Le nuove promesse belle, ricche e famose sembrano accontentarsi di qualche piccola affermazione e si impauriscono davanti agli anziani giganti, sconfitti più dal timore reverenziale che da una reale superiorità tecnica.

Lo Slam americano si è sempre contrapposto a Wimbledon cercando di distinguersi, di innovare, quasi seguendo l’indole americana di non dare importanza alla storia, forse perché non ritenuta gloriosa e imponente come può essere quella dell’Impero Britannico.

novak djokovic
“Roland VI” – Foto: Marcel Hartmann

Nel 1968 il torneo aprì le porte al professionismo iniziando l’era Open. Lo fece sui prati di Forest Hills, continuando la tradizione del torneo nato, in un contesto ovviamente diverso, quasi un secolo prima, nel 1874.  Il 9 settembre 1969,  a New York, Rod Laver conquistò il “Grande Slam”, aiutato da una fortunata coincidenza meteorologica che fece slittare la finale al lunedì, battendo il connazionale australiano Tony Roche. Dopo aver perso il primo set per 9-7, punteggio oggi non più ripetibile a causa dell’introduzione del tie-break, Laver, anche grazie alle pause concesse dalla pioggia intermittente, recuperò alla grande e chiuse agevolmente i successivi 3 set. Nel 1970 fu la volta di Margaret Court, la quale vinse tutti i titoli dello Slam nello stesso anno, proseguendo spedita una corsa che la porterà a vincerne complessivamente 24, record tuttora ineguagliato. Nel 1975 il torneo cambiò pelle, e dopo un secolo di erba si concesse alla terra battuta, una breve parentesi che permise di aprire il torneo anche agli specialisti della terra. Nel 1977 il torneo cambiò ancora, stavolta sia la sede che la superficie: si spostò poco più a nord, a Flushing Meadows, nel parco che ospitò le Esposizioni universali del 1939 e del 1964.

Flushing Meadows
Flushing Meadows

A dispetto della traduzione letterale, il parco prende il nome dal fiume Flushing e dal lago Meadow. Flushing Meadows era la discarica in cui venivano portate le scorie della rivoluzione industriale, dove erano accumulate le ceneri degli altoforni e il materiale di risulta della cementificazione costiera. Oggi siamo in piena City, ma agli inizi del Novecento eravamo in una landa sperduta e isolata, citata da Fitzgerald nel Grande Gatsby come “la valle di cenere”; negli anni Trenta fu bonificata, e le ceneri rimosse furono impastate per costruire le grandi arterie che oggi attraversano il Queens.

Nel ’77  per ospitare lo US OPEN fu costruito un complesso sportivo su altre “ceneri”, quelle del grande e storico stadio, il SINGER BOWL, eredità dell’esposizione universale che fino ad allora aveva ospitato Jimi Hendrix, The Doors e The Who, ma che fu poi rapidamente sacrificato per dare vita a due stadi di tennis: il Louis Armstrong e il Grandstand. Il Louis Armstrong fu da quel momento, e per oltre vent’anni, il più grande stadio di tennis del mondo, potendo ospitare fino a 18.000 persone, e prese il nome dal famoso jazzista che terminò la sua vita poco distante dai campi di gioco. Fu anche il primo campo centrale a sdoganare il cemento, la superficie del futuro, la superficie nata in sordina ed arrivata ad essere il riferimento per tutto il resto. Con il cemento lo spettacolo è assicurato, non è più necessaria la tecnica perfetta, è sufficiente avere un servizio potente, correre più degli altri e imparare a scivolare: il sogno americano dello spettacolo è così assicurato.

Con il cemento lo spettacolo è assicurato, non è più necessaria la tecnica perfetta, è sufficiente avere un servizio potente, correre più degli altri e imparare a scivolare: il sogno americano dello spettacolo è così assicurato.

Nel 1981 le ceneri risorte ospitarono il dramma sportivo di Borg: il campione svedese perse per la quarta volta la finale, sconfitto da John McEnroe, poche settimane dopo essere stato imprevedibilmente sconfitto dall’americano anche nella finale di Wimbledon, vittoria con cui McEnroe vendicò la sconfitta nell’epica finale del 1980, che fu raccontata anche dal film di Pedersen.

Björn decise che poteva bastare così: niente più tornei dello Slam e niente più tennis (salvo qualche timido ripensamento). Si ritirò a 25 anni con 10 titoli dello Slam all’attivo ma senza aver mai vinto a New York e in Australia. Nel 1988 Steffi Graf realizzò a New York il Golden Grand Slam, vincendo tutte le prove e l’oro olimpico di Seoul. La tedesca non si fece intimidire dalla talentuosa Sabatini, l’unica ad averla sconfitta in quella stagione, e realizzò quello che nessuno aveva mai realizzato prima. 

L’11 settembre 2015 fu invece una data memorabile per il tennis italiano: Roberta Vinci sconfisse Serena Williams impedendole di fatto di realizzare il tanto agognato Calendar Grand Slam. Il giorno successivo Roberta si arrese a Flavia Pennetta in una finale all’insegna del tricolore, terminata la quale Flavia annunciò il suo ritiro dalle competizioni.

Una valle di cenere che ha visto nascere e morire campioni. Un luogo dimenticato che dopo qualche decennio, diventa per almeno 2 settimane all’anno uno dei centri del mondo. Un simbolo del cambiamento continuo, dell’innovazione instancabile che ha cercato di rendere universale un antico sport nato nella corte reale e rimasto a lungo un vezzo per pochi aristocratici.

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