osvaldo soriano

Osvaldo Soriano, scrivere stupidate

Sarebbe riduttivo etichettare Osvaldo Soriano come uno scrittore di calcio. Si, lui ha scritto di calcio, ma i suoi racconti hanno fatto emergere spaccati di vita che trascendono dal pallone. Il calcio di cui scrive è un ricordo lontano, ma non sfocato perché lo fa riemergere con vivida e lucida penna nelle vicissitudini di personaggi veri e fittizi, dai campi impolverati della Patagonia alla Russia di Stalin, passando per il Red Star di Parigi. Soriano ha scritto di calcio, ma solo dopo averlo giocato. Inizia nel Confluencia, la squadra della sua città, Cipolletti, fondata all’inizio del Novecento da un ingegnere italiano. La sua stazza – era chiamato El gordo – lo ha portato a giocare come punta, che però allora si chiamava Centrofóbal. Aveva talento Soriano: segnava in tutti i modi, anche gol bellissimi, come quello in cui riuscì a segnare con un tunnel al portiere:

La palla gli è passata in mezzo alle caviglie come una goccia d’acqua che scivola tra le dita.

Una volta segnò anche in una partita in cui l’arbitro era il padre.

Mio padre non sapeva che doveva indicare il centrocampo, e si avvicinò per domandarmi sottovoce: “Giurami che non l’hai toccata con la mano”. L’ho guardato in faccia: “Te lo giuro”, gli ho risposto. Sudava come un facchino, aveva i pantaloni stracciati e le scarpe tutte rovinate. Ho immaginato che mia madre si sarebbe messa a urlare quando saremmo tornati a casa.

Una carriera finita presto a causa di un incidente che gli costò il posto in squadra e gli spianò, fortuna nostra, la strada verso il giornalismo sportivo. Un mestiere che non abbandonò mai e che interpretò a suo modo:

Non amo lavorare troppo, né correre per i corridoi di uno stadio, né forse capisco di sport quanto l’incarico richiederebbe. Ma so inventare storie bellissime.

Storie in cui usa personaggi presi in prestito dalla vita, giusto il tempo per una partita, “fantasmi che vengono fuori da un posto qualunque“. Improbabili, imperfetti individui persi ad inseguire la Rubia Ferreira o a correre tra le braccia della Gorda Zulema. Sono cowboy raminghi, come il figlio di Butch Cassidy che nel tentativo di raggiungere gli Stati yankee che diedero fama al padre, si diletta ad arbitrare partite improbabili, come quel famoso Mondiale del 1942; sono figli del tempo come Mister Peregrino Fernandez, che ha visto tutta la parte brutta del mondo: dalla Germania di Hitler all’URSS di Stalin, dal Marocco post colonizzazione all’Australia, dalla Patagonia fino ad una triste casa di riposo di Neully, una quartiere residenziale di Parigi. I suoi protagonisti sono quasi sempre dei perdenti, a cui basta la gloria di un gol per sentirsi appagati: perdenti “vestiti con i panni del sogno“.

osvaldo soriano

La sua scrittura è una continua tensione tra la narrativa realista di Steinbeck e la leggerezza nonsense di Vonnegut. Scrive di guerre, lotte di classe e riscatti sociali con la stessa leggerezza dei grandi scrittori che parlano delle cose del mondo senza emettere giudizi. In tutto questo il calcio, cornice “virile e sciocca“, diventa la metafora “della presuntuosa grandezza e dell’amara miseria” dell’Argentina. E che Soriano sia argentino è evidente in ogni pagina: tratta il calcio come se fosse tango. Ne racconta il lato romantico, quello che era una volta e che oggi non è più. Tra le sue pagine si sentono la polvere dei campetti improvvisati, le botte e i lividi che i difensori, coloro che “si portano il peccato accanto, pronti a commetterlo di nuovo“, lasciano agli attaccanti, quella sacralità dello stare solo in uno stadio contro la folla che ti urla contro mentre stai realizzando qualcosa di entusiasmante e tragico allo stesso tempo. Soriano scrive di calcio per quello che è: lo sport popolare per eccellenza, uno sport “che non esigeva denaro e si poteva giocare senza null’altro che la pura voglia“. Il calcio delle università inglesi era arrivato sulle sponde del Rìo de la Plata e aveva attecchito tra le persone più umili. Criollos, immigrati, giovani e vecchi si sfidavano lì dove capitava. E fu solo grazie al fútbol che: 

Lavoratori espulsi dalle campagne si intendevano alla perfezione con i lavoratori espulsi dall’Europa. L’esperanto del pallone univa i poveri del posto con i braccianti che avevano attraversato il mare da Vigo, Lisbona, Napoli…

Uno sport giocato da tutti, anche se “a Dio non piace il calcio. Per questo questo Paese va così, come la merda“. Soriano ha scritto di calcio, non come giornalista, ma come un bambino appassionato. Le sue storie partono dai ricordi d’infanzia, ed è questo che lo rende così puro e popolare, legato cioè alle sue radici e al suo ambiente. Un tratto di un grande scrittore che ancora risveglia in chi lo legge l’amore per questo sport, a discapito del suo vecchio allenatore, Orlando El Sucio, che diversi anni dopo gli disse: “Lei aveva del talento in area. È un peccato che sia finito così, a scrivere stupidate…

C’è un aneddoto che ha raccontato Eduardo Galeano e che giura sia vero. Una tale Gabriela stava portando dei fiori sulla tomba di suo fratello Javier nel cimitero di Chacarita, a Buenos Aires, quando per caso scoprì la tomba di Soriano. 

Qui vengono un sacco di tipi strani. Se le potesse vedere… se le raccontassi – le fa il becchino.
E le raccontò. Le raccontò di tipi strani che si mettevano a girare attorno alla tomba, e chiacchieravano. E – non c’è proprio più rispetto – ridevano!
Gli lasciano anche delle lettere. Gli seppelliscono dei bigliettini! Le pare possibile?
E così dicendo, soddisfatto della sua denuncia, il becchino si allontanò. Gabriela rimase sola, ringraziò l’umorismo demistificante e profondo dello scrittore. Il becchino era ormai lontano e non potè sentire la voce del Gordo Soriano che, dal profondo, sussurrò: 
Scusa, eh, se non mi alzo…

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