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John Steinbeck e l’immigrazione clandestina nel calcio

Nell’Ovest si diffuse il panico di fronte al moltiplicarsi degli emigranti sulle strade. Uomini che avevano proprietà temettero per le loro proprietà. Uomini che non avevano mai conosciuto la fame videro gli occhi degli affamati. […] E gli uomini delle città e quelli dei ricchi sobborghi agrari si allearono per difendersi a vicenda; e si convinsero a vicenda che loro erano buoni e che gli invasori erano cattivi, come fa ogni uomo prima di andare a combatterne un altro. Dicevano: Quei maledetti Okie sono sporchi e ignoranti. Sono maniaci sessuali, sono degenerati. Quei maledetti Okie sono ladri. Rubano qualsiasi cosa. […] Sono sporchi, portano malattie.

È il 1939 quando in America esce un libro destinato a diventare un caposaldo della letteratura mondiale, talmente potente da creare una forte spaccatura, a tratti anche violenta, tra i suoi sostenitori e detrattori e diventare un punto di riferimento di tutta la letteratura a venire. L’opera narra le peripezie della famiglia Joad, costretta ad abbandonare la propria fattoria nell’Oklahoma a bordo di un autocarro e a migrare in California con la speranza di ricrearsi una vita. Il libro sottende una forte denuncia sociale, mettendo in luce le condizioni di vita di molte famiglie indigenti durante il periodo della Grande Depressione. Si intitola Furore e il suo autore è John Steinbeck.

Furore è il romanzo della grande immigrazione nel quale è impossibile non vedere il presente. Oltre alla storia in sé (il furgone usato dai protagonisti lo si può sostituire con un un barcone), oltre ai riferimenti più o meno espliciti ad un sistema economico che tende ad acuire le differenze tra ricchi e poveri (come Steinbeck scrive in uno dei primi capitoli: “La banca è qualcosa di diverso da un essere umano. Capita che chiunque faccia parte di una banca non approvi l’operato della banca, eppure la banca lo fa lo stesso. Vi ripeto che la banca è qualcosa di più di un essere umano. È il mostro. L’hanno fatta degli uomini, questo sì, ma gli uomini non la possono tenere sotto controllo”), oltre a tutto questo, emerge un ulteriore e forte parallelismo con i nostri giorni: la diffidenza e la paura, che spesso sfociano in violenza, per il diverso. È un meccanismo comune e quasi automatico, soprattutto in quei momenti della Storia in cui la prospettiva di un futuro incerto e non certo glorioso, diventa una costante nei dibattiti politici e nel chiacchiericcio da bar. I Joad, come tutti gli altri mezzadri arrivati dal Midwest, vengono soprannominati Okie, un termine dispregiativo, paragonabile a quelli usati qui da noi: negro, zingaro, terrone. La loro speranza di crearsi una nuova vita si scontra con una realtà che non li vuole, li insulta, li sfrutta e li lascia morire.

Che ci piaccia o no, questa è la nostra realtà. Ma anche in un clima così teso e parossistico si rivelano talvolta delle storie che fan ben sperare, soprattutto nello sport, naturale accentratore di queste vicende. Il caso più recente è quello di Musa Juwara, calciatore salito recentemente agli onori della cronaca per aver segnato il suo primo gol in Serie A contro l’Inter, un gol risultato poi fondamentale per la vittoria della sua squadra, il Bologna. La sua è una storia comune e quasi banale di questi tempi se non fosse per il finale. Arrivato dal Gambia su un barcone ad appena 14 anni, viene affidato ad una famiglia di Ruoti, in provincia di Potenza. Qui inizia la sua carriera calcistica nelle file delle giovanili della Virtus Avigliano, vincendo anche il campionato U17 regionale della Basilicata. Due anni dopo viene notato dal Chievo ed entra a far parte della squadra primavera dei clivensi. Da lì una crescita professionale incredibile che lo ha portato lo scorso 5 luglio, a soli 18 anni, ad esordire a San Siro e a trafiggere la Beneamata.

Altra storia degna di nota è quella che ha come protagonista Mamadou Coulibaly partito da Dakar e diventato calciatore professionista a Pescara attraverso peripezie che dal Senegal lo hanno portato in Marocco, a Grenoble, poi Livorno e Roma. Il tutto dormendo per strada al gelo, mangiando gli scarti trovati nei cassonetti e senza il supporto di nessuno. Le storie di Juwara e Coulibaly sono solo la punta dell’icerbeg di un mondo sommerso, quello dell’immigrazione clandestina nel calcio, che come raccontavamo in un articolo di qualche mese fa, è un fenomeno ben più articolato di quanto si possa immaginare. 

Quasi tutti arrivano con l’idea di diventare giocatori, l’Italia è vista ancora come la patria del calcio. Appena indossano un maglia e scendono in campo, anche solo per un torneo nei campetti della parrocchia, mandano le foto agli amici rimasti in patria e così si alimenta ulteriormente l’idea che da noi sia facile diventare un calciatore professionista

Massimo Castorino

Il sogno di diventare calciatore e raggiungere stipendi in grado di cambiare la propria vita e quella delle loro famiglie è una motivazione tanto forte da spingere centinaia di giovani africani ad attraversare a piedi o su mezzi di fortuna il Nord Africa, a rischiare il carcere e le torture e ad affrontare il Mediterraneo su delle barchette alla buona. È il caso, per esempio, di Ahmed Ayoub, giovane emigrante libico che in Italia è stato accolto da un centro di Oristano. Un centro particolare nella sua rarità, dato che rientra nel progetto “Rete!” della Figc, un programma che prevede il reinserimento dei ragazzi dei centri d’accoglienza grazie allo sport. Ed è interessante notare come tutti i ragazzi africani vivano l’esperienza del centro come la possibilità della svolta, il treno che passa una sola volta nella vita.

Oggi devo dare il meglio di me stesso, mi sto davvero giocando il futuro. Se riuscissi a trovare una squadra, per me cambierebbe tutto

Yusuf, ivoriano arrivato in Italia appena 20enne

Per questi ragazzi il calcio è quello che la raccolta della frutta e del cotone è per i componenti della famiglia Joad, il Santo Graal. Alla fine quello che cercano è un lavoro. Non c’è da stupirsi se li si vede sempre lì in quei campetti a giocare con le ciabatte o con delle scarpe di tela raccattate chissà dove. Per loro non c’è più casa né passato, c’è solo quella mica di speranza. Ma il sogno della serie A o della Champions league non è certo alla portata di tutti e molti alla fine finiscono a rinfoltire le squadre dei paesini, spopolati dall’emigrazione di massa dei loro giovani. Paesini semi deserti le cui squadre non riescono a raggiungere nemmeno il numero sufficiente per iscriversi ai campionati. Ed è bello pensare che queste piccole realtà locali continuino ad esistere e resistano alla prova del tempo grazie a questa nuova, giovane comunità.

Ma come aveva anticipato Steinbeck quasi un secolo fa la vera sfida è creare un sistema virtuoso in cui gli immigrati non sono un problema da gestire, ma una risorsa da valorizzare. Una società equa in cui la parte ricca deve sostenere quella meno agiata che nel calcio vuol dire che i top club devono supportare le piccole realtà a loro geograficamente affini. E non stiamo parlando di realtà professionistiche, ma di quelle dilettantistiche, le prime entità in cui i giovani africani riescono a trovare un minimo di stabilità e un palcoscenico in cui potersi guadagnare la cittadinanza italiana. Ma per Steinbeck questa società giusta era ancora lontana da venire e i poveri avevano solo i poveri a cui chiedere aiuto e gli emigranti, sfiancati dalla ricerca del lavoro, si accontentavano nello sforzo di sopravvivere.

Sto imparando una cosa importante – disse Ma’- la sto imparando ogni momento tutt’i giorni. Quando stai male o magari hai bisogno o sei nei guai… va’ dalla povera gente. Soltanto loro ti danno una mano … soltanto loro.

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